Riaffiora, in questa
silloge di quattordici saggi (Sacrificio e società nel mondo
antico, Laterza, 1988), il problema del sacrificio animale in una
prospettiva nuova e intelligente che ha apertamente subito le
influenze delle ricche ricerche che ci vengono dalla scuola francese,
in particolare da Vernant. Le ipotesi interpretative della tematica
sacrificale, qui trattata in saggi che privilegiano il mondo classico
e quello vicino-orientale, sono condensate nel documentato e critico
discorso introduttivo di Cristiano Grottanelli, il quale, grazie alla
competenza specifica di tutta l’attuale letteratura sull’argomento
e in particolare per la sua consuetudine con i temi dei riti
sacrificali ebraici e vicino-orientali, riduce la immagine del
sacrificio, così come definito nella storia delle religioni e in
antropologia, a una sorta di flatus vocis, di termine di
comodo che copre realtà ben più ricche e complesse: un’operazione
analoga, per certi aspetti, a quella che Lévi Strauss compì in un
suo celebre libriccino sul totemismo, abbattendone l’immagine
mistificante falsata da una lunga tradizione.
In altri termini la
nostra immagine del sacrificio, maturata in un ambiente culturalmente
condizionato dal modello del sacrificio cristiano e dalle eredità,
in esso confluite, delle ideologie ebraica e classica, sarebbe un
referente fittizio per significare tutt’altro: la necessità
alimentare del consumo di carne animale, la ripartizione gerarchica
delle carni e la serie di cautele rituali che si sovrappongono a tali
esigenze primarie.
Secondo modalità
diverse, nelle varie società umane, l’uccisione dell’animale
scatena una serie di colpe collettive angoscianti che comportano la
necessità di compensazioni ideologiche e cerimoniali destinate a
trasformare l’atto economico (o anti-economico) dell’uccidere e
dell’alimentarsi in una trama di valori simbolici. L’uccidere per
alimentarsi diviene, allora, secondo le varie prospettive, offrire un
dono agli dei, alimentarli, stabilire con loro una comunione,
celebrare un atto che è destinato a sorreggere la vita cosmica,
costituire vincoli di solidarietà all’interno del gruppo, e sono
le prospettive che si proiettano nella serie del sacrificio-dono, del
sacrificio-offerta, del sacrificio-comunione e via di seguito.
Nel fondo di questi
atteggiamenti, che pure hanno il loro grande rilievo culturale e
divengono aspetti essenziali della storia umana, resta il crudo
rapporto dei gruppi umani con il mondo animale, e le modalità di
tale rapporto — Grottanelli ne sembra convinto — appaiono
storicamente condizionate e varianti da tempo a tempo. Nelle antiche
società di cacciatori, nelle quali avrebbe preso la sua prima
sostanza la figura dell’«uomo uccisore», si delinea la grande
precarietà dell’impresa venatoria, dell’acquisto di una preda
che si «presenta» casualmente e, quindi, non è dominabile dal
gruppo.
Il fallimento
dell’impresa di caccia si ricostituisce psicologicamente come
conseguenza di una colpa o di un peccato da parte del gruppo, che,
per uccidere, non crea il meccanismo del sacrificio, proprio di
società posteriori, ma quello ancora più complesso della «finzione
rituale», il realizzare, cioè, l’impresa economicamente utile
dell'uccidere la preda, come se si facesse altro o come se venisse a
essere realizzata occasionalmente e senza colpa degli uccisori. Sono
celebri i ritualismi dell’orso, che viene soppresso con ogni
cautela, senza mai essere nominato e come se si offrisse
volontariamente al cacciatore, per poi reincarnarsi dopo la morte.
Nelle società
allevatorie e in quelle agricole superiori, nelle quali assume la sua
determinante importanza il bue aratore, l’uccisione dell’animale
diviene un evento assolutamente antieconomico, poiché l’animale è
bene primario che va conservato e moltiplicato, e perciò il
meccanismo del sacrificio, come uccisione sacralizzata, destinata a
costituire un rapporto con il mondo divino, assume tutta la sua
pregnanza giustificatoria e placa le ondate di colpa e di
responsabilità insorgenti nel gruppo. È noto, per esempio, che gli
Ateniesi, in un rito molto intricato nella sua polivalenza, quello
dei Bouphonia (o uccisione del bue aratore), che veniva compiuta come
sacrificio in occasione delle feste principali di Atene, ricorrevano
a un cerimoniale destinato a scaricare la colpa dell’uccisione dal
sacerdote sull’uno o sull’altro partecipante, fino a farla
ricadere sull'ascia sacrificale che veniva sottoposta a giudizio.
Ecco perché, in fondo,
uccidere animali e mangiare la loro carne diviene culturalmente un
sacrilegio, e la tensione sacrilega si riflette ancora nei lessici
indoeuropei, se, per esempio, il nostro termine «mattatoio» è
legato a quel «mactare» latino che rappresentava l’uccidere
ritualmente l’animale. Tutte di rilievo, in questa raccolta i
contributi specialistici, tra i quali quelli del Burkert, di
Detienne, di Durand e degli altri stranieri sono, nella loro
ripetitività di argomenti già trattati in precedenti loro
pubblicazioni, di molto inferiori a quelli degli studiosi italiani.
"Corriere della Sera", 19 settembre 1988
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