“Qualcosa da dire”
non significa nulla. Uno scrittore cerca il senso, o il non-senso,
della vita. Lo può cercare nella storia, nell’amore, in una
vicenda privata o in una collettiva, o anche in una visione del mondo
comunque verificata…Non importa dove, in quale tipo di storia, ma
come, con quale rovello, con quale gioco formale, con quale
profondità. Uno scrittore cerca comunque di capire in quale mondo ci
tocca di vivere. Per questo continua a interessarci anche secoli
dopo che ha scritto. Perché quello che scrive ci riguarda, riguarda
il nostro destino, il significato che diamo alla vita, al nostro
essere nel mondo.
2) L’anima del
romanzo è la ricerca della verità (Stendhal). Non voglio buttarla
sul filosofico ma ha senso per te parlare oggi di “verità”,
oppure è soltanto un anacronismo (per Carlo Freccero,
neosituazionista da talk show, “una cosa anni ’60”) o un
effetto retorico (per buona parte della cultura francese
para-nietzscheana degli ultimi decenni)? Esiste ancora la verità,
ineludibile pur nel suo essere relativa, parziale e provvisoria (una
verità che riguarda la psicologia, l’etica, l’esistenza, la
nostra relazione con il mondo…)?
Se per verità si intende
la ricerca di cui ho appena parlato, e non un qualche dogma
precostituito, si può usare anche questa parola. Ma la verità di
uno scrittore è sempre aperta, problematica, suscettibile di
interpretazioni diverse. In un’opera esteticamente efficace contano
le domande più delle risposte. Sta qui il suo contenuto etico. La
sua verità consiste in quelle domande. Che poi sono sempre domande
di senso. La verità di un testo contribuisce a determinare un
orizzonte di verità, una verità storica, relativa, parziale. La
verità storica di una società e di un’epoca è una costruzione
ininterrotta di senso, e il testo vi porta il suo contributo.
Consiste in questo la socialità profonda della letteratura. E
tuttavia il problema che oggi soprattutto ci preme è il seguente:
nell’ultimo capoverso ho usato ancora il presente, ho scritto
“contribuisce”, “porta”, “consiste”. Non avrei dovuto
piuttosto scrivere “contribuiva”, “portava” “consisteva”?
La situazione che ho descritto al presente (quella cui fa riferimento
Sartre) esiste ancora o fa parte di un passato ormai irrecuperabile?
3) La critica ha
bisogno della Teoria (per alcuni alla teoria si è sostituita la
conversazione o l’ideologia). Ora, va bene come richiesta di rigore
contro la critica impressionistica e narcisistica, però nel decennio
’70 – quello dei critici-scienziati in camice bianco che
riducevano i romanzi a ingegnosi diagrammi e formule tautologiche –
la teoria (con la falsa sicurezza che dà) cancellava la
responsabilità soggettiva del giudizio e l’atto critico come
impresa felicemente personale e avventurosa. Non è un rischio?
Diceva Baudelaire che in
ogni poeta che si rispetti c’è un critico. Ciò vale anche per un
romanziere. Contini avvisava (per Montale ma non vale solo per lui)
che l’arte nasce da un processo di “saturazione culturale”.
Anche lo scrittore più improvvisato e sprovveduto, anche un
autodidatta di provincia come Tozzi, ha alle spalle una coscienza
critica. È questa coscienza critica che contribuisce a determinare
la ricchezza del suo messaggio. Non si tratta, negli scrittori veri,
di applicare una Teoria precostituita ma di mettere in gioco una
serie complessa di competenze anche teoriche. Ovviamente in modo ogni
volta libero e personale (rischioso più che “avventuroso”,
direi).
4) Siamo minacciati
dalla cultura unica del bestseller. Ma purtroppo non è neanche
dimostrato che il successo di un libro sia inversamente
proporzionale alla sua qualità, né che i libri migliori siano
quelli pubblicati da piccoli e coraggiosi editori (sarebbe troppo
facile…). Ritieni che il mercato (intendo un vero mercato, non
quello truccato di oggi, con le corsie preferenziali per i volti
televisivi e i premi spesso decisi da piccole lobby) specie per un
genere “popolare” come il romanzo resti comunque una verifica
preziosa, non del tutto evitabile?
Nella risposta alla
domanda n. 2 mi chiedevo se ciò che valeva per Sartre o per Benjamin
e che certamente valeva ancora per Calvino o Pasolini o Zanzotto,
abbia valore ancor oggi. Il dominio incontrastato del mercato, dello
spettacolo, della televisione ha riempito di estrogeni la produzione
narrativa (meno quella poetica, che quasi, in Italia, “non ha
mercato”). Basti guardare la top ten list che vede in testa
romanzi mediocri di giornalisti, presentatori televisivi, uomini
dello spettacolo e talora della politica che, fra una comparsata e
l’altra, buttano giù delle storie per il gran pubblico. C’è
come una compagnia di giro formata dagli stessi personaggi che in TV
si presentano a vicenda i propri romanzi, scalando così le
classifiche dei giornali. Non esistono più le recensioni, non esiste
più la critica. Certo a volte (raramente peraltro) si può
intrufolare nella top ten list anche qualche scrittore vero
che per una serie di contingenze favorevoli (l’argomento di cui
tratta, per esempio) diventa per qualche tempo un autore di successo.
Ma il mercato non verifica nulla. La ricerca di senso di uno
scrittore può anche, qualche volta, incrociare le classifiche (che,
non si dimentichi, sono classifiche di mercato, merceologiche, e non
di valori letterari), ma può restarne anche tranquillamente fuori.
Il mercato fa il suo lavoro; che la letteratura, se ci riesce, faccia
il suo. È vero però che per la letteratura riuscirci è sempre più
difficile, tanto è diffuso (anche nei nostri polmoni, e anche se non
lo vogliamo) l‘inquinamento. D’altronde il mercato è il nostro
orizzonte e lo scrittore deve in ogni caso farci i conti. Ma non per
assorbirne gli estrogeni passivamente, piuttosto per farlo diventare
aspetto problematico (sul piano tematico e soprattutto su quello
linguistico e stilistico) della propria ricerca di senso.
5) Nella mia personale
utopia abita un critico come “individuo” – inappartenente,
solitario, indocile – . Ora, se fino a ieri questo critico si
appoggiava a una tradizione abbastanza stabile, non ancora
depotenziata (l’alta cultura), a una dialettica della Storia
(marxismo), a soggetti o classi che si volevano rivoluzionari ma in
seguito scomparsi (classe operaia, movimenti di liberazione), oggi su
cosa si sostiene? Non somiglia al barone di Munchausen che si prende
il proprio codino per tirarsi su?
La separazione fra i
valori del mercato e quelli della letteratura è sancita dalla fine
della critica che un tempo svolgeva il compito di mediazione fra
opere e pubblico. In mancanza della critica è il mercato che la fa
da padrone. Non esiste neppure più un canone condiviso a livello
nazionale. Esistono miriadi di canoni settoriali, tanti quanti sono
le pieghe della società civile, e in continua vorticosa
trasformazione. Un tempo esisteva, nel bene e nel male (anche nel
male, come tutti sanno) una società letteraria. Per decretare il
successo di Ungaretti e il suo ingresso nel canone nazionale
bastarono ottanta copie del Porto sepolto inviate ai critici e
ai recensori del tempo. Quella era la società letteraria di allora.
Oggi non esistono più le recensioni e sui giornali chi si occupa di
letteratura dipende dal marketing delle case editrici o dal
pettegolezzo della cronaca. D’altra parte la critica universitaria
è chiusa nella istituzione, è a circuito interno, e non ha più
sponde nella società civile. In una parola sola: è
autoreferenziale, e interessa solo agli addetti ai lavori (quasi
sempre, in quanto studenti o colleghi, coatti). Il critico che vuole
continuare a fare il critico (qualcuno c’è ancora) deve fingersi
un pubblico, è costretto a rivolgersi a lettori virtuali, a fare
come il barone di Münchausen che si tirava fuori dalla palude
prendendosi per il codino (così, efficacemente, si legge nella
domanda). Per questo oggi la critica (quello che resta della critica)
è una impresa difficile, una scommessa. Il critico infatti, come per
altri versi e in altri modi lo scrittore, cerca nelle opere non la
verifica di una teoria precostituita o di una precostituita
ideologia, ma il senso della vita. Ma c’è qualcuno a cui ciò
interessi ancora?
6) La letteratura
autentica (penso alle grandi opere del modernismo), se a un primo
livello educa lo “spirito” e amplia l’immaginazione (ed è
giusto insegnarla a scuola e farne la base per la cittadinanza), alla
lunga crea o può creare disadattati, persone asociali, intrattabili,
destabilizzate. La sua verità è sovversiva e disturbante. In questo
senso forse è giusto che venga coltivata da minoranze, che non
diventi mai davvero di massa?
Non è giusto. Non è
giusto che la vera letteratura sia coltivata solo da minoranze. Può
essere inevitabile, e probabilmente lo è, ma ciò non significa che
sia giusto. Come ricorda Filippo La Porta nella introduzione,
l’opera è un appello alla coscienza e alla libertà. Aggiungo che
è un appello rivolto a tutti [... ] Uno specialista si rivolge a un
pubblico settoriale, ma uno scrittore si rivolge a tutti Certo non
può ignorare la istituzione di cui fa parte che indirizza l’opera
alle élites e prescinde, per esempio, dagli analfabeti o dagli
illetterati (soprattutto, poi, nei tempi moderni quando vengono del
tutto meno la narrazione orale e l’abitudine alla lettura
pubblica). Ma lo scrittore, di per sé, vorrebbe che il suo bisogno
di senso coinvolgesse gli altri, senza esclusione. La letteratura si
rivolge tendenzialmente a ogni lettore, anche del futuro, anche di
altra lingua; tende a una universalità senza confini. Sarebbe dunque
giusto che tutti potessero accoglierla. Ma oggi non è così. In
realtà da secoli l’arte, in quanto istituzione, è rivolta alle
classi dominanti, a quelle che hanno tempo libero e “gusto” (due
cose spesso collegate). Dapprima, a partire dal Settecento, la
produzione romanzesca è stata destinata alla borghesia, poi a
settori di essa sempre più ristretti. In Italia questa restrizione è
già evidente nel “fiasco, fiasco pieno e completo” dei
Malavoglia e poi continua con Svevo, Tozzi, Gadda, tutti autori con
pochi lettori, ma almeno riconosciuti dalla critica (basti pensare
alla funzione che ebbero per loro Russo, Debenedetti, Borgese,
Contini). Figuriamoci poi “le grandi opere del modernismo”
europeo (dall’Ulisse all’Uomo senza qualità), in
Italia ignorate anche a scuola sino agli anni sessanta. La situazione
oggi si è ulteriormente definita perché non esiste più nemmeno una
borghesia colta. Un tempo era frequente che un medico, un notaio, un
avvocato, un uomo politico avessero interessi letterari e sino a
metà del Novecento non era concepibile, per esempio, che un deputato
non conoscesse qualche opera di Carducci, Pascoli e d’Annunzio, e
magari, nel dopoguerra, anche di Pavese, Vittorini, Ungaretti e
Montale. Oggi la maggior parte dei parlamentari non ha mai nemmeno
sentito rammentare i nomi degli scrittori contemporanei più noti (a
meno che non siano anche famosi giornalisti, come Saviano). Chi non
ricorda la reazione di un ministro berlusconiano alla proposta del
presidente della Repubblica di allora di nominare Luzi senatore a
vita? D’altronde, l’ho già detto, manca un canone condiviso. E
non credo nemmeno che le opere letterarie più complesse siano
ignorate perché “sovversive” o “disturbanti”, come leggo
nella domanda. Sono ignorate perché, nella atomizzazione presente
della società, appartengono ad altri universi, estranei a quelli
frequentati dalla maggior parte dei potenziali lettori. È la
letteratura in quanto tale che è diventata estranea alla società di
oggi, come sanno bene i docenti delle scuole medie che incontrano
sempre maggiori difficoltà a mediare fra il mondo attuale (e i suoi
linguaggi) e quello di Leopardi o di Svevo (e i loro linguaggi).In
questa situazione inevitabilmente il pubblico delle opere dotate di
spessore letterario, e cioè di una intenzione di stile e di una
complessità di temi e di interrogativi, è di necessità ridotto. Si
va verificando forse quello che da anni è evidente in campo musicale
dove c’è la grande massa che ascolta le canzoni di San Remo e
gruppi molto più ristretti di “amatori” che vanno ai concerti di
musica classica.
7) Puoi dirmi che
cos’è la letteratura, in poche righe (sei libero di non
rispondere)?
La letteratura è (era?),
già l’ho detto, una inchiesta sul senso o sul non-senso della
vita. Ne deriva che ha anche, come effetto, un valore conoscitivo. Dà
un contributo alla conoscenza del mondo. Ma è una conseguenza del
lavoro estetico, non il suo fine. La finalità dell’arte è
un’altra. Chi scrive opere dotate di spessore letterario obbedisce
anzitutto a un bisogno estetico: vuole dare forma a una ricerca di
senso, far vivere la complessità in un suo ordine che la sollevi
dall’usuale e dall’automatico e la disciplini (e non importa se è
un ordine apparentemente “disordinato”, espressionistico,
informale ecc.). Lo voglia o no, mira, come diceva Sanguineti, al
museo (o all’antologia). Mira al “bello”. Può denunciare
l’inferno di una condizione storica, ma l’effetto della denuncia
sarà comunque “bello”. Rosso Malpelo descrive l’inferno
di una cava (ce lo fa conoscere), ma la descrizione di quest’inferno
alla fine è “bella”. «Quante rose a nascondere un abisso»,
diceva Saba parlando della poesia. Per questo un’opera letteraria
non è né di destra né di sinistra, non è “progressista” né
“reazionaria”, né democratica né aristocratica. Anzi è
insieme, in un nesso difficilmente districabile, democratica e
aristocratica, di sinistra e di destra, progressiva e reazionaria.
Céline può essere apprezzato da un intellettuale marxista e Brecht
da uno fascista. «L’arte – spiegava Marcuse – non richiede
nessun obbligo». Gli ufficiali nazisti amavano la grande musica
classica, e Wagner poteva essere amato da Hitler ma anche da un uomo
di cultura di sinistra. E tuttavia l’arte può diventare di destra
o di sinistra. Dipende (o dipendeva?) da come viene letta. L’opera,
una volta pubblicata, entra nel conflitto delle interpretazioni, ed
essendo complessa e problematica si presta contemporaneamente a
diverse e anche opposte interpretazioni. È in questo modo che
contribuisce (contribuiva?) alla formazione sociale di senso. Il
critico e gli altri mediatori sociali (soprattutto gli insegnanti) ne
fissano un senso possibile, un senso mobile, precario,
sdrucciolevole, e nondimeno dotato di una qualche durata e
consistenza. E così, per qualche decina di anni, Dante è diventato,
grazie a Foscolo e poi anche a De Sanctis, una figura cara al nostro
Risorgimento e la Commedia un’opera progressiva che a esso
preludeva.
La grande letteratura,
come la grande arte (pittura, musica…), è dunque, si è detto,
complessa, problematica, ma è anche doppia, ambigua: è uno
splendore che copre un orrore. Non c’è documento di civiltà, ci
ricorda Benjamin, che non sia anche documento di barbarie. L’inferno
di Dante o quello di Rosso Malpelo sono anche documento di barbarie
(e non solo perché, come ci ricorda Marx, i polpastrelli di
Beethoven presuppongono i calli alle mani di chi lavorava per lui e
per i suoi protettori, o perché, per restare alla letteratura, le
grandi opere selezionano in partenza il proprio pubblico,
escludendone una grande parte, ma anche perché rappresentano
l’orrore della nostra civiltà). Il lettore (il critico o
l’insegnante) può però guardare attraverso le rose di Saba e
intravvedere l’abisso che esse coprono o nascondono, farcelo
conoscere (è, questo, direbbe Benjamin, il “contenuto di verità”
dell’arte): lavorando sullo splendore formale possono attraversarlo
e portare alla luce il nocciolo d’orrore che esso porta in sé. La
verità dell’arte sta in questa contraddizione. Il lettore e
interprete può “disambiguare” il messaggio dell’arte,
socializzandolo in un modo invece che in un altro e contribuendo così
a quel complessivo conflitto delle interpretazioni da cui nasce la
verità storica di una opera, di una società e di un’epoca. È per
questa ragione che il senso di un’opera (la sua verità) non è
mai statica, ma si dà nel tempo, cambiando di continuo insieme con
esso.
Postilla
Questa intervista, a cura
di Filippo La Porta, è uscita il 23 febbraio 2017 su
www.wikicritics.com. Io ne ho ripreso un ampio stralcio dal sito “La
letteratura e noi”, diretto da Romano Luperini, ove è stata
ripubblicata il 12 marzo 2017. (S.L.L.)
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