Con cosa lo fate il
risotto? Col Carnaroli? Con l’Arborio? E le minestre di riso? Con
l’Originario? Credete davvero? In realtà probabilmente voi
l’Arborio non l’avete mai mangiato. E forse neppure il Carnaroli.
Il mondo del riso è
affascinante e, a differenza di altri settori dell’agroalimentare,
quasi sconosciuto al consumatore. Nel corso delle ricerche per il
libro Contro Natura ci siamo resi conto di sapere molto poco
di questo cereale che sfama una buona parte della popolazione
mondiale e che è parte integrante della tradizione gastronomica
italiana. A EXPO un cluster è stato dedicato al riso (con risultati
un po' deludenti). Abbiamo scoperto brevetti, filiere esclusive,
modifiche genetiche per resistere ai diserbanti, mutazioni da
radiazioni, finti risi biologici e, appunto, di non aver mai mangiato
l’Arborio. Ecco perché (con un estratto da Contro Natura).
Il Karnak in
dispensa
«Karnak? Ma non era un
supereroe della famiglia degli Inumani?». Il vostro autore è un
appassionato di fumetti, e la prima volta che ha sentito questo nome
non ha di certo pensato al riso. Lo conoscete? Magari no, ma noi
scommettiamo un risotto che, almeno una volta nella vita, il Karnak
lo avete mangiato. Ci state?
In Italia, alcune varietà
di riso «storiche» come l’Arborio o il Carnaroli sono ancora
coltivate, nonostante abbiano rese non particolarmente elevate
rispetto a varietà più moderne e siano più suscettibili alle
malattie. Nel nostro Paese si coltivano un centinaio di varietà
diverse di riso e ogni anno se ne registrano di nuove. Dove
finiscono? È possibile che arrivino sulle nostre tavole solo quelle
tradizionali?
«All’agricoltore
interessa la novità, mentre il consumatore vuole la tradizione».
Due punti di vista opposti e, sembrerebbe, inconciliabili che, però,
ci spiega Paolo Carrà, presidente dell’Ente Nazionale Risi, hanno
trovato un punto d’incontro nella legge n. 235 del 18 marzo 1958
con l’istituzione delle «griglie».
Secondo questa legge, il
riso italiano è raggruppato in tipologie omogenee per i diversi
impieghi culinari. Per ognuna di queste sono indicate la varietà che
dà il nome al gruppo e tutte quelle che afferiscono. In pratica, se
a casa avete una scatola di riso «Originario», sappiate che può
contenere una delle seguenti varietà: Originario, Agata, Ambra,
Arpa, Balilla, Brio, Castore, Centauro, Cerere, CL 12, Ducato, Elio,
Eridano, Lagostino, Marte, Perla, Selenio, Sfera, Sole CL, SP 55,
Terra CL o Virgo. E in realtà, andando a vedere l’estensione delle
superfici coltivate, è molto probabile che abbiate il Selenio.
Gli unici gruppi che, per
il momento, sono formati da una sola varietà sono il Vialone Nano e
il Sant’Andrea, quindi, salvo frodi, se a casa avete una scatola di
questi risi potete essere certi che lì dentro ci sono sicuramente o
Vialone Nano o Sant’Andrea. Ma per tutti gli altri valgono le
regole delle griglie, anche per le varietà più diffuse come il
Carnaroli, l’Arborio o il Baldo. Nel 2014, il gruppo del Carnaroli
conteneva, per esempio, Carnise, Carnise Precoce, Karnak, Poseidone.
Il gruppo dell’Arborio: Aleramo, Volano e Vulcano. Il gruppo del
Baldo: Bacco, Bianca, Elba, Fedra, Galileo, Neve, Proteo e Roma.
Quindi si chiamano in un
modo, ma dentro potrebbe esserci tutt’altro. Certo, niente di così
diverso da rovinare la preparazione dei piatti, ma le differenze tra
le varietà, come è facilmente intuibile, ci sono e se nonostante
compriate la stessa marca di riso da sempre ogni tanto avete
risultati diversi dal solito, il motivo potrebbe essere questo.
Il raggruppamento in
classi abbastanza omogenee ha avuto sicuramente il vantaggio di
semplificare la commercializzazione del riso senza bloccare lo
sviluppo di nuove varietà che potessero andare incontro alle
esigenze degli agricoltori e al cambiamento dell’agricoltura, che
non è più quella del 1945.
In altre parole, ci
spiega Carrà, senza questa legge, il «peso» della tradizione,
spesso glorificata dal consumatore che non ha mai visto un campo di
riso da vicino e che idealizza un’agricoltura e i suoi prodotti
sempre uguali a se stessi, sarebbe forse stato schiacciante.
Forse. Non lo sappiamo,
in realtà. Per altri settori agricoli non ci si preoccupa nemmeno
della varietà che stiamo acquistando. Le patate, per esempio, sono
distinte dal consumatore in base al colore della buccia e all’uso
gastronomico che se ne fa. Nel caso dei pomodori, invece, siamo
abituati a vedere sempre nuove varietà che prima non esistevano: il
datterino, il cuore di bue, il ciliegino ecc. Il consumatore non è
per nulla confuso: assaggia una nuova varietà e, se gli piace, ne
può addirittura decretare il successo commerciale. Cosa sarebbe
successo al riso se non ci fosse stata quella legge del 1958 non lo
possiamo sapere. Forse ora avremmo scatole con il nome Barone CL o
Volano. Già, il Volano. Così diffuso tra i risicoltori eppure così
sconosciuto tra i consumatori.
Pensavo fosse
Arborio e invece era Volano
L’Arborio è frutto
dell’incrocio tra il Vialone e la varietà americana Lady Wright,
ottenuto da Domenico Marchetti che gli dà il nome dell’omonima
cittadina vercellese. L’Arborio è coltivato per la prima volta nel
1946 e fin da subito ebbe un certo successo, tanto che in soli tre
anni raggiunse i 1000 ettari di coltivazione. Per i trent’anni
successivi, almeno fino al 1980, Arborio era sinonimo di risotto per
la maggior parte degli italiani. Ma, come abbiamo visto, l’evoluzione
agricola va di pari passo con quella biologica e nel 1972 la Società
Italiana Sementi introduce il Volano, ottenuto da un incrocio tra
Rizzotto e Stirpe 401, agronomicamente molto simile all’Arborio.
Pian piano questo riso si diffonde ed entra nelle griglie
ministeriali, può cioè essere venduto come Arborio. Se nel 1982 si
coltivavano 20.000 ettari di Arborio e solo 500 di Volano, pian piano
le parti si sono invertite. Nel 1990 l’Arborio scende a 14.000
ettari e il Volano sale a 6500, nel 2000 è l’Arborio a essere
coltivato su 5700 ettari e il Volano su 17.000. Nel 2012 il Volano
occupa quasi 20.000 ettari e il glorioso Arborio è ridotto al
lumicino, con 674 ettari. La probabilità che, avendo una scatola di
Arborio in dispensa, abbiate veramente riso della varietà Arborio
sono, come potete immaginare, bassissime.
C’è da chiedersi se
abbia ancora senso una regolamentazione del genere. Per Carrà,
sì:«Questa soluzione accontenta tutti. L’agricoltore è
soddisfatto perché può coltivare un prodotto più redditizio e il
consumatore si trova rassicurato da un nome che riconosce. Se
vendessimo il Volano come Volano, ci sarebbe un crollo totale del
mercato, perché non lo comprerebbe nessuno. Alla fine, se il
consumatore si trova bene con un prodotto e continua a comprarlo,
vuol dire che va bene così».
Per altri, invece, come
Eugenio Gentinetta, costitutore di decine di varietà, le differenze
si vedono eccome: «Il Volano è quasi tutto perlato e cuoce
diversamente. L’Arborio ha la perla centrale, cuoce bene
all’esterno e all’interno rimane un po’ crudo. Stanno nella
stessa categoria perché hanno le stesse dimensioni, una collosità
simile e basta».
Scopriamo infatti che tra
i criteri per essere inseriti nelle griglie mancano totalmente le
caratteristiche organolettiche. Si valutano l’aspetto del chicco,
le dimensioni, la percentuale di amido, ecc., ma il gusto o la
consistenza in cottura, per esempio, no.
Massimo Biloni, direttore
di Sa.Pi.Se., una delle varie aziende sementiere di riso italiane,
non ha peli sulla lingua rispetto a questa legge che, da sementiere,
non gli piace: «Sappiate che è una cosa solo italiana.
L’agricoltore non può dichiarare il falso e se produce Carnise lo
deve vendere come Carnise. Le riserie invece possono acquistare il
Carnise e venderlo come Carnaroli. Fuori dall’Italia sarebbe frode
in commercio. Se in Francia inscatoli Carnise e lo chiami Carnaroli è
frode in commercio. In Italia è una «frode legalizzata». Da far
rizzare i capelli. La Comunità europea però ha detto che va bene e
che non è una frode in commercio perché è un richiamo a nomi
storici».
Rincara la dose Dino
Massignani, agricoltore «controcorrente» che incontriamo nella
tenuta che dirige, immersa nel parco del Ticino: «Metti che compri
una Ferrari e la paghi 300.000 euro. Poi vai a ritirarla e al suo
posto ti consegnano una Duna, rossa e con lo stemma della Ferrari. Tu
dici: “Ma io avevo comprato una Ferrari!”. E loro ti rispondono:
«Beh, ma è rossa, c’ha pure lo stemma». Sì, ma io voglio la
Ferrari!».
I punti di vista di
Biloni, Gentinetta e Massignani sono diversi: i primi due, da
costitutori, vorrebbero vedere dar valore sia ai nomi delle varietà
sia alle caratteristiche specifiche del chicco, al terzo, invece, non
piace che altre varietà che lui considera minori vadano a «sporcare»
il nome delle «fuoriclasse» storiche.
Il Carnaroli
Un caso analogo riguarda
il glorioso Carnaroli, il re dei risotti, che vede nella sua griglia
altre varietà come il Carnise, il Poseidone e il Karnak, sviluppato
dallo stesso Gentinetta, che nel 2012 ha raggiunto il Carnaroli come
superfici coltivate. In pratica, è molto probabile che su due
scatole di Carnaroli che avete a casa almeno una contenga in realtà
Karnak. Come vedete, abbiamo vinto la nostra scommessa e ci dovete un
risotto.
Gentinetta ci racconta
che ha iniziato a lavorare sul Carnaroli quando ancora stava all’Ente
Risi, per poi continuare in maniera indipendente. Voleva produrre
varietà agronomicamente interessanti anche per un mercato che era
sempre sembrato sacro e intoccabile, quello dei risi da risotto.
«Ho mandato all’ENEA
semi di Carnaroli, Baldo, Arborio e Roma per farli irradiare, ma ho
avuto risultati solo con il Carnaroli.»
La tecnica è la stessa
che abbiamo descritto per il grano Creso. Il programma di mutagenesi
da radiazioni fatto partire da Scarascia Mugnozza negli anni
Cinquanta è stato ufficialmente chiuso da ENEA negli anni Ottanta. I
fondi sono stati destinati ad altre attività ritenute più
interessanti dal punto di vista scientifico, tuttavia il servizio di
irraggiamento è rimasto attivo, per enti o aziende che ne avessero
bisogno. Infatti, ci conferma Gentinetta: «La mutagenesi è un po’
la genetica dei poveri. Se non si possono usare tecnologie più
moderne si usa quello. E forse è per questo che più della metà
delle varietà di riso che coltiviamo oggi nel mondo sono ottenute
per mutagenesi diretta o per incroci con varietà mutate».
Dall’irraggiamento dei
semi di Carnaroli, Gentinetta ha ottenuto un mutante molto
interessante, identico al Carnaroli come aspetto, ma molto più
basso, un metro contro i quasi due del Carnaroli. Ne esistono altri,
di risi ottenuti per mutazione, ma non è possibile sapere con
sicurezza quali: «Non è obbligatorio e fa paura, quindi evitano di
dirlo» ci dice Gentinetta. «Il chicco è identico e rende molto di
più. La resa di una pianta di Carnaroli è per il 70% paglia e per
il 30% chicco, mentre nel Karnak il rapporto è metà e metà. Quindi
la resa per ettaro è maggiore del 20%.»
Mica poco considerando
che, essendo riuscito a entrare in griglia, può essere venduto allo
stesso prezzo del Carnaroli. E il gusto? «Non si fanno mai test
organolettici. Quando devo sviluppare una nuova varietà parto da
genitori buoni che abbiano molto amilosio e per il resto mi fido del
mio occhio. Se son belli, son belli e si vede. Qualcuno dice che il
Karnak è diverso dal Carnaroli, che non è buono. Ma sono tutte
polemiche strumentali. Ci sono personaggi innamorati del Carnaroli e
per loro è il massimo.»
Il Karnak è stato
introdotto nel 2002 e nel giro di pochi anni rivaleggia, come
superfici coltivate, con il più famoso Carnaroli di cui può
utilizzare il nome sulla confezione. Nel 2012 i risicoltori italiani
coltivano 8700 ettari di Carnaroli e 7800 di Karnak.
«A me piacerebbe vedere
il Karnak, il Cammeo, il Caravaggio, il Keope e tutti gli altri risi
che ho fatto sugli scaffali. Adesso, in teoria, si può ancora fare e
qualche coraggioso che scrive “Karnak” sulle scatole lo si trova
ancora, ma la nuova legge lo impedirà ed è un peccato, perché si
dà l’idea che non c’è più ricerca.»
Mentre mangiamo il
risotto Keope, Gentinetta ci racconta che da anni si discute di
metter mano alla legge del 1958 con un provvedimento che dovrebbe
essere approvato nel 2015. Le bozze che abbiamo potuto visionare
descrivono una situazione ancora meno trasparente, per il
consumatore, di quella attuale. Le griglie saranno ridotte e bloccate
alle sei tradizionali: Arborio, Roma/Baldo, Carnaroli, Ribe,
Sant’Andrea e Vialone Nano. Le varietà ammesse in griglia dovranno
obbligatoriamente chiamarsi col nome di riferimento del proprio
gruppo. Il Karnak e tutte le altre decine di varietà in griglia non
potranno più essere vendute come tali a meno di non uscire dalle
griglie e cercare di conquistare il mercato da sole. Tutto il resto
potrà essere miscelato e venduto come Tondo, Medio, Lungo A e Lungo
B secondo la classificazione commerciale europea. Non troveremo più,
se la legge verrà approvata, scatole di Rosa Marchetti per esempio.
Da un lato, la legge del
1958 e l’eventuale nuova legge del 2015 aiutano gli agricoltori
permettendo loro di seminare nuove varietà più resistenti alle
malattie e a resa più alta senza dover a ogni costo inseguire il
mercato. Dall’altro, il consumatore, abituato a un nome simbolo,
non deve continuamente aggiornarsi sulle caratteristiche delle nuove
varietà. Una scatola di riso denominato Arborio sarà sempre adatta
per fare il risotto, anche se di Arborio praticamente non se ne
coltiva più.
Un effetto collaterale di
questo espediente però è che il consumatore ha la falsa impressione
che le varietà di riso non cambino mai, che siano immutabili. Ecco
dunque che varietà esplicitamente descritte come «nuove» sono
viste con sospetto se non addirittura rifiuto. Se le griglie
ministeriali fossero state introdotte negli anni Quaranta, oggi il
Carnaroli, l’Arborio, il Baldo e praticamente tutti i risi
«tradizionali» non sarebbero conosciuti e continueremmo a pensare
di mangiare quelle varietà ormai dimenticate come il Maratelli (che
non è buono per il risotto) che mangiavano le nostre nonne.
Se però volete anche una
ragione pratica del perché sarebbe bello vedere i nomi delle varietà
sulle scatole di riso, anche solo accompagnando il nome del gruppo
principale (indicando, per esempio, «Karnak, gruppo Carnaroli»),
questa si basa sul fatto che due varietà, anche se simili, non sono
identiche. Il sapore è un po’ diverso così come le
caratteristiche di cottura. Se avete una scatola di riso Carnaroli
quasi finita a casa e la mescolate con una seconda scatola, di una
marca diversa ma sempre etichettata Carnaroli, in realtà potreste
avere mescolato del Karnak, o del Carnise, o del Carnise precoce, con
del Carnaroli e ottenere risultati poco soddisfacenti nella vostra
risottiera. E ovviamente lo stesso discorso vale per altre varietà:
nella vostra scatola di Roma o Baldo potrebbe esserci un Barone CL,
nel sacchetto di Originario un Sole CL, nel Rosa Marchetti un Furia
CL e in un Ribe un Luna CL.
D’altronde,
indipendentemente dalla legge, il mercato sta già andando da tempo
nella direzione della semplificazione estrema. Sugli scaffali dei
supermercati iniziano a comparire confezioni di riso che il nome
della varietà lo riportano solo in piccolo vicino alla data di
scadenza. Sono risi «Gran Chicco» o «Per Risotti» o «Insalate
Perfette».
A noi la proposta di
riforma della legge del 1958 non piace. Ci pare una brutta legge solo
a favore dell'industria e non del consumatore, e speriamo che non
venga approvata nella formulazione attuale. Ci piacerebbe che anche
altri soggetti si unissero a noi nel sollevare la questione.
Noi vorremmo una
legislazione differente. Noi vogliamo sapere se stiamo acquistando
Volano oppure Arborio, Karnak oppure Carnaroli, o l’ultima star del
firmamento risicolo: il Cammeo. Crediamo che la trasparenza nel mondo
del cibo sia un valore in sé e che, se questa trasparenza è
accompagnata a una comprensione e a una conoscenza di quello che
coltiviamo e compriamo, non si dovrebbe avere paura di chiamare le
cose con il loro nome.
Da “Le Scienze Blog”,
28 maggio 2015
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