Alfonso Gatto |
Com'è spoglia la luna, è
quasi l'alba.
Si staccano i convogli,
nella piazza
bruna di terra il verde
dei giardini
trema d'autunno nei
cancelli.
È l'ora fioca in cui
s'incide al freddo
la tua città deserta,
appena un trotto
remoto di cavallo,
l'attacchino
sposta dolce la scala
lungo i muri
in un fruscìo di carta.
La tua stanza
leggera come il sonno
sarà nuova
e in un parato da
campagna al sole
roseo d'autunno s'aprirà.
La fredda
banchina dei mercati
odora d'erba.
La porta verde della
chiesa è il mare
Tutte le poesie,
Mondadori, 2017
Franco Fortini |
Un poeta ingiustamente
dimenticato dopo che per molti anni fu avvicinato ai maggiori.
Alfonso Gatto ebbe un animo non molto diverso da quello degli autori
che han no vissuto e scritto nel ventennio antecedente la guerra e
hanno amata la poesia come altri ama l’amore, ossia in un modo
adolescente e patetico, spirituale e indolenzito.
Gatto ha avuto una
capacità di disarticolazione delle immagini che è stata detta molto
vicina alle libere associazioni dei surrealisti, mentre il suo
lessico è rimasto quasi sempre nella tradizione. C’è un suo
verso, il primo di una poesia che si intitola Un’alba in una
raccolta che si chiama Arie e ricordi. È un verso
endecasillabo perfetto: «Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba».
Certo vi senti una cantabilità trasognata, che ricorda il D’Annunzio
del Poema paradisiaco e il Pascoli, ma, più in genere, il teatro
della discrezione e del silenzio di fine secolo. Ma quel «Come»
all’inizio del verso rammenta certe aperture di Luzi. E ancor più
ci senti o almeno mi pare vi si possa sentire un elemento che situa
fermamente questo verso nel decennio che è occupato dall’età
della Seconda guerra. È l’esclamativo assordato, diminuito,
rattenuto, e smorzato dalla seconda metà del verso, che è quasi una
voce seconda e quindi provoca un evidente effetto di dizione ad
apertura di sipario. È come se iniziasse una scena, intimistica e
desolata, vista da un abbaino di bohémiens o in un mattino di
vagabondi insonni.
Seguono tre versi, due
dei quali hanno il medesimo ritmo del primo mentre al quarto mancano
due sillabe, e si crea così un vuoto, quasi una mancanza di respiro.
«Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba. / Si staccano i
convogli, nella piazza / bruna di terra il verde dei giardini / trema
d’autunno nei cancelli.» Una assonanza, una rima interna. Ma tutto
è nell’aggettivo: «spoglia». Quell’aggettivo nelle vicinanze
del sostantivo «luna» era già in Ungaretti. «Spoglia» è anche
quella del defunto. La luna è defunta e insieme dimessa e spogliata.
È una proiezione di quella che, per Alfonso Gatto, sarebbe la
caratteristica della umanità migliore intesa nel suo senso più
tiepido, francescano, di una umiltà che non esclude la ribellione
degli oppressi. Naturalmente, anche un autoritratto. Quella luna
spoglia e quell’alba sono meno di Baudelaire che di Laforgue e di
Apollinaire. È una luna da Pierrot lunare ma anche stanchezza,
dolcezza, assopimento, stupefazione, rinuncia. L’alba è una delle
più antiche parole della lirica europea; ma la povertà della luna,
il «quasi» dell’incertezza ci fanno capire che qui essa si leva
su saltimbanchi rosa di Picasso più nostalgici che reali, in una
miseria spiritualistica e mistica attraversata anche dal brivido di
un secolo senza pietà.
Da Breve novecento in
Saggi ed epigrammi, I
Meridiani, Mondadori, 2003
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