25.6.17

Un'alba. Una poesia di Alfonso Gatto con il commento di Franco Fortini

Alfonso Gatto
Com'è spoglia la luna, è quasi l'alba.
Si staccano i convogli, nella piazza
bruna di terra il verde dei giardini
trema d'autunno nei cancelli.
È l'ora fioca in cui s'incide al freddo
la tua città deserta, appena un trotto
remoto di cavallo, l'attacchino
sposta dolce la scala lungo i muri
in un fruscìo di carta. La tua stanza
leggera come il sonno sarà nuova
e in un parato da campagna al sole
roseo d'autunno s'aprirà. La fredda
banchina dei mercati odora d'erba.
La porta verde della chiesa è il mare

Tutte le poesie, Mondadori, 2017

Franco Fortini
Un poeta ingiustamente dimenticato dopo che per molti anni fu avvicinato ai maggiori. Alfonso Gatto ebbe un animo non molto diverso da quello degli autori che han no vissuto e scritto nel ventennio antecedente la guerra e hanno amata la poesia come altri ama l’amore, ossia in un modo adolescente e patetico, spirituale e indolenzito.
Gatto ha avuto una capacità di disarticolazione delle immagini che è stata detta molto vicina alle libere associazioni dei surrealisti, mentre il suo lessico è rimasto quasi sempre nella tradizione. C’è un suo verso, il primo di una poesia che si intitola Un’alba in una raccolta che si chiama Arie e ricordi. È un verso endecasillabo perfetto: «Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba». Certo vi senti una cantabilità trasognata, che ricorda il D’Annunzio del Poema paradisiaco e il Pascoli, ma, più in genere, il teatro della discrezione e del silenzio di fine secolo. Ma quel «Come» all’inizio del verso rammenta certe aperture di Luzi. E ancor più ci senti o almeno mi pare vi si possa sentire un elemento che situa fermamente questo verso nel decennio che è occupato dall’età della Seconda guerra. È l’esclamativo assordato, diminuito, rattenuto, e smorzato dalla seconda metà del verso, che è quasi una voce seconda e quindi provoca un evidente effetto di dizione ad apertura di sipario. È come se iniziasse una scena, intimistica e desolata, vista da un abbaino di bohémiens o in un mattino di vagabondi insonni.
Seguono tre versi, due dei quali hanno il medesimo ritmo del primo mentre al quarto mancano due sillabe, e si crea così un vuoto, quasi una mancanza di respiro. «Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba. / Si staccano i convogli, nella piazza / bruna di terra il verde dei giardini / trema d’autunno nei cancelli.» Una assonanza, una rima interna. Ma tutto è nell’aggettivo: «spoglia». Quell’aggettivo nelle vicinanze del sostantivo «luna» era già in Ungaretti. «Spoglia» è anche quella del defunto. La luna è defunta e insieme dimessa e spogliata. È una proiezione di quella che, per Alfonso Gatto, sarebbe la caratteristica della umanità migliore intesa nel suo senso più tiepido, francescano, di una umiltà che non esclude la ribellione degli oppressi. Naturalmente, anche un autoritratto. Quella luna spoglia e quell’alba sono meno di Baudelaire che di Laforgue e di Apollinaire. È una luna da Pierrot lunare ma anche stanchezza, dolcezza, assopimento, stupefazione, rinuncia. L’alba è una delle più antiche parole della lirica europea; ma la povertà della luna, il «quasi» dell’incertezza ci fanno capire che qui essa si leva su saltimbanchi rosa di Picasso più nostalgici che reali, in una miseria spiritualistica e mistica attraversata anche dal brivido di un secolo senza pietà.


Da Breve novecento in Saggi ed epigrammi, I Meridiani, Mondadori, 2003

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