Dal 2 al 7 settembre
1984 si svolse nella sede universitaria di Rende (Cosenza), con il
titolo Il manicheismo: un incrocio innovatore tra giudaismo,
cristianesimo e gnosi, un convegno internazionale sul «Codex
Manicaicus Coloniensis» (Cmc), presenti i più importanti filologi e
storici che lavoravano in Europa e negli Usa sui primi secoli del
cristianesimo e sulle sue origini. Il codice era stato pubblicato a
cura dei professori Henrichs (Harvard) e Koenen (Michigan), entrambi
presenti al convegno, nel 1970, costituiva (e continua costituire) un
testo fondamentale per gli studi sul manicheismo. Quello che segue è
un servizio dal convegno per “il manifesto” da due giovani
studiosi che vi parteciparono. (S.L.L.)
In una sala dell’antico
convento di Rende parliamo con il professore Luigi Cirillo,
organizzatore del convegno e autore di studi (Evangìl de Barnabé,
Parigi, 1977; Elchasai e gli Elchasaiti, Cosenza) il cui
fascino è grande tanto quanto è minuscolo il numero dei lettori al
di là del cerchio stretto degli specialisti. Cirillo è un uomo
strano e singolare, la prima impressione è quella faticosa del
filologo educato all’antica che non lascia varchi a suggestioni che
possano animare l’interesse dell’inesperto e del moderno. E però
l’altalena sonora delle parole e il guizzo dello sguardo lasciano
intuire un’attitudine paradossale ma sempre necessaria allo
storico: il baratro temporale che ci divide da Mani e dal
cristianesimo delle origini sembra sfarinarsi e l’oggetto di studio
sembra interloquire al presente con il suo indagatore.
Le dimensioni del Codice
sono, a dispetto della sua importanza, estremamente ridotte (2
centimetri per 3). Il testo ritrovato in una tomba era infatti un
medaglione portato al collo da uno degli addetti manichei. Le
condizioni del codice, cattive ma non disastrose, hanno permesso la
quasi intera ricostruzione del testo, ma in questo campo ormai, si sa
la paleografia e la filologia fanno miracoli. La data e il luogo del
ritrovamento rimangono tuttora imprecisati: per il luogo si pensa
alla zona del Saium in Egitto. Il testo ritrovato è in greco,
databile intorno alla fine del IV - inizio del V secolo dopo Cristo,
ma è la traduzione di una precedente stesura in aramaico siriaco del
IV secolo.
Ma di che cosa parla
questo preziosissimo codice? Non è, innanzitutto uno scritto
dottrinario, né tantomeno un elenco di precetti manichei. Il codice
narra della formazione del giovane Mani e più precisamente della
formazione del corpo di Mani, come recita il titolo. È questo già
il primo grande problema: se cioè si debba intendere il corpo nel
suo senso letterale, la formazione della persona di Mani e della sua
dottrina; o se invece bisogna intendere «corpo» sulla scorta della
tradizione paolina, e quindi in riferimento al corpo ecclesiale e
dunque alla crescita della comunità manichea.
Il problema è ancora ben
lontano da soluzioni definitive, tanto più che all’interno del
testo le due accezioni compaiono entrambe in contesti diversi. Una
prima parte del codice racconta l’infanzia e la fanciullezza di
Mani, il suo progressivo distaccarsi dai Battisti. Il piccolo Mani si
ribella e si rifiuta di lavorare nel giardino dal quale la comunità
giudeo-cristiana fondata, dice il codice, da Elchasai, prende il suo
sostentamento vegetariano. Piante ed erbe conservano un’anima
vivente, una porzione di luce del Dio vivente: recidendo il vivente,
il Cristo piange.
È questa concezione che
porterà il manicheismo a praticare l’astensione dal lavoro degli
eletti, ai quali il cibo doveva essere offerto come «pio dono» dai
semplici fedeli, dagli uditori, il cui «peccato» lavorativo veniva
così in un certo senso superato proprio per l’offerta del frutto
del lavoro al sostentamento degli eletti. Dietro al racconto, e alla
ricca aneddotica di rivelazioni e manifestazioni sovrannaturali di
cui il Cmc è pieno, il problema che si agita è se la frattura e la
scissione tra i manichei e gli elchaseiti sia avvenuta in seguito
alla teorizzazione di una nuova impostazione religiosa, o se questa
non sia stata la conseguenza di un precedente attrito manicheo contro
la rigida precettistica giudeo-cristiana degli elchaseiti.
La sezione seguente del
codice è certo la più interessante. A 24 anni Mani riceve la
rivelazione del Syzygos, del suo gemello di luce: l’immagine di sé
come riflesso in uno specchio infinito è di splendida bellezza (Cmc
17.1). Il gemello mostra a Mani l’identità della sua anima nello
specchio di luce come «l’anima di tutti i mondi», di altezza
sconfinata e di profondità non figurabile.
Così: «io fui certo che
egli mi apparteneva come me stesso / e allora lo riconobbi / e seppi
che egli è colui che io sono / da cui fui separato /E ho portato
testimonianza / che io sono quello stesso / che è l’incrollabile».
In poche righe del codice
la vertigine mistica di Mani afferra a un tratto l’identità
dell’anima con l’anima di tutti i mondi e la fusione dell’io
con il grande sé. Il Dio Nous è da sempre lo stesso e io sono lui,
solo l’ignoranza mi faceva velo portandomi a credere di esserne
separato.
Questa affermazione che
attesta la consustanzialità del Dio e del risveglio è certo uno dei
temi centrali che differenziano Mani e la sua via di conoscenza, via
gnostica, dal cristianesimo della grande Chiesa per la quale la
grazia che unisce il Dio e il testimone è un accidente estraneo alla
substanzia dell’uomo. Dio è in te e tu sei in Dio, Dio è
perduto nella materia il cui riscatto sta solo nella gnosi rilevata
dal gemello celeste, dal grande specchio di luce. Si può intuire qui
lo straordinario impasto manicheo — tributario, certo dell’ambiente
iranico e delle influenze zoroastria-ne, ma rielaboratore di motivi
giudaici e cristiani fino a giungere, nella sua interpretazione della
gnosi, al nucleo dell’esperienza liberatrice e redentrice delle vie
induiste e buddiste. Illuminazione che rivela che «io sono quello»,
il Samhadi — impressiona, per altro, nel codice l’annuncio che
Mani dà della sua missione come rinnovamento del cristianesimo:
abbiamo un brano del Vangelo di Mani che inizia con «io Mani,
apostolo di Gesù Cristo...», il calco, la sigla di Paolo ripetuta.
Mani appare qui con Paolo, l’altro apostolo e «testimone dello
spirito», al di là degli apostoli, «testimoni degli occhi», che
hanno seguito Gesù durante la sua vita.
Mani rielabora la
tradizione del «verus propheta» — una linea che va da
Enoch allo stesso Mani passando per Gesù Cristo — una sorta di
incarnazione progressiva di figure dello Spirito che portano a
successive perfezioni di rivelazione la verità eterna. Mani è la
rivelazione ultima, la presenza, la parousia dello spirito, il
consolatore promesso da Gesù come colui che «insegnerà la verità
tutta intera» alla fine dei tempi. Suggestivo è il parallelo con
Paolo: Mani e Paolo sembrano entrambi lottare per liberare l’annuncio
cristiano dalla dipendenza della legge: non è l’osservanza dei
precetti che libera e che salva. Ciò che redime è la grazia di Dio
o la gnosi dello spirito.
Appare però subito una
decisiva differenza, la cristologia di Paolo è incentrata sul valore
salvifico della morte e della resurrezione di Cristo; la cristologia
di Mani è compresa nella linea della rivelazione spirituale della
«catena aurea» dei «veri profeti»: ciò che redime è solo la
«gnosi», l’esperienza della illuminazione.
Anche se superfluo, è
d’obbligo ripetere come ci si trovi qui a confrontarsi con un
groviglio di problemi storici, ma anche teologici e morali, che hanno
segnato in modo deciso il nostro modo di pensare e di sentire — i
riferimenti d’obbligo, oltre alla vicenda del cristianesimo dei
primi secoli, la cui immagine sempre più si allontana da ogni
possibilità di semplificazione e di riduzione alle tradizioni della
chiesa giunte fino a noi, sono quelli di un reticolo di spaventevole
complessità che lega il debito iranico, il giudaismo, il
cristianesimo e le vie gnostiche alle eresie medievali catare, al
mondo letterario cortese — e ai sommovimenti religiosi e sociali
che percorrono l’Europa fino alla riforma e dentro la riforma.
Dopo di che lo spirito santo tradotto in filosofia e politica si è premurato di raggiungerci con il carico immutato dei suoi più inquietanti quesiti. L’attualizzazione forzosa è sempre poco linda e accademica — ma è anche vero che assai di rado l’intelligenza profusa dagli accademici si rende conto di cosa sta rigirando fra le mani. Difficilmente si potrebbe negare al profeta di Babilonia un ruolo importante fra gli interlocutori del tempo presente: l’insicurezza circa la «giustificazione del male» è tornata a appartenerci per intero, tanto quanto il richiamo della conoscenza come esperienza ed esperimento di vita...
Dopo di che lo spirito santo tradotto in filosofia e politica si è premurato di raggiungerci con il carico immutato dei suoi più inquietanti quesiti. L’attualizzazione forzosa è sempre poco linda e accademica — ma è anche vero che assai di rado l’intelligenza profusa dagli accademici si rende conto di cosa sta rigirando fra le mani. Difficilmente si potrebbe negare al profeta di Babilonia un ruolo importante fra gli interlocutori del tempo presente: l’insicurezza circa la «giustificazione del male» è tornata a appartenerci per intero, tanto quanto il richiamo della conoscenza come esperienza ed esperimento di vita...
"il manifesto", 13 settembre 1984
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