Negli anni Ottanta del
900, alcuni storici “revisionisti” tendevano a negarne il
carattere prevalentemente piccolo-borghese del nazismo tedesco e
inserivano la classe operaia o una parte fondamentale di essa tra le
componenti del nazionalsocialismo hitleriano. Alcune fondazioni e
alcuni centri sociali italiani e tedeschi organizzarono proprio in
quegli anni un ciclo di ricerche un ciclo di ricerche originali sul
tema della base sociale del nazismo e della partecipazione operaia
alla costruzione del regime. La libreria Calusca pubblicò nel 1994 i
risultati di alcune ricerche in un volume collettaneo dal titolo
Classe operaia e nazismo. Sergio
Bologna, storico e sociologo del lavoro tuttora attivo, era autore di
una relazione da cui è tratto questo estratto che fu pubblicato su
“il manifesto”. A me sembra che per più di una ragione le
scoperte e acquisizioni di quella ricerca siano oggi più importanti
che allora. (S.L.L.)
Le politiche
occupazionali del nazismo
dopo la presa del potere
Il legame con uno «Stato
sociale», su cui molto avevano puntato sia la socialdemocrazia che i
sindacati per dare senso di cittadinanza alla classe operaia nella
Repubblica di Weimar e per inculcare in tal modo fedeltà alle
istituzioni repubblicane, si frantuma e questo scollamento
contribuiva a creare un ulteriore senso di estraneità della classe
rimasta senza lavoro nei confronti dello Stato e delle sue
istituzioni: quindi quando si dice che la classe operaia non difese
adeguatamente la democrazia repubblicana occorre tenere presente che
questa democrazia rappresentava ormai ben poco agli occhi del nucleo
centrale della forza lavoro.
Ricacciando i disoccupati
nel sistema dell’assistenza comunale si formava un esercito di
persone che andavano a chiedere la carità a un funzionario che
doveva, molto spesso sulla base di un’impressione soggettiva,
giudicare dei loro bisogni; si formava così una massa di milioni di
persone ricattabili e, quel che più importa per il successivo regime
nazista, di schedati.
Disoccupazione
nascosta
Ma non basta. Come
abbiamo detto, il sussidio erogato dai Cornimi era soggetto
all’obbligo di rimborso; si formava così una massa di indebitati a
vita con le finanze comunali (nel 1935, con abile mossa, Hitler emise
un decreto con cui venivano cancellati tutti i debiti degli assistiti
nei confronti dei Comuni).
Queste circostanze
spiegano allora perché, con il progredire della crisi, un numero
sempre maggiore di persone rinunciò a ricorrere a qualunque forma di
assistenza e andò ingrossando così sempre più il numero di coloro
che non erano più registrati come disoccupati.
Nasce quindi il problema
politico, economico, sociale e statistico della cosiddetta
«disoccupazione nascosta» durante la Grande Crisi; all’inizio
della crisi le persone che godono di un diritto al sussidio di
disoccupazione sono la grande maggioranza di assistiti; nel 1933,
mese di marzo, quando Hitler è già al potere e la disoccupazione
raggiunge il suo culmine, sono diventati minoranza; la grande
maggioranza è finita nel terzo contenitore, se immaginiamo questo
sistema come un sistema di vasi comunicanti; si tratta di milioni di
persone compietamente in balia del sistema comunale di assistenza
alla povertà.
A questi vanno aggiunti
naturalmente coloro che, stufi di essere sottoposti a un sistema
altamente discrezionale, di essere schedati e per di più di dovere
un domani rimborsare i magri sussidi, andavano a ingrossare le file
della «disoccupazione nascosta».
(…) Nella memoria di
chi ha vissuto quegli anni il rapporto con l’ufficio di assistenza
è sempre di tipo conflittuale; sono testimonianze che si riferiscono
sia al periodo della Grande inflazione (1923), sia al periodo
successivo della Grande razionalizzazione (1924-1928), sia al periodo
della Grande Crisi (1929-1933).
Questi avvenimenti
riducono in povertà persone di diversi ceti sociali, impiegati,
commercianti, artigiani, che si trovano a fare la coda assieme agli
anziani, alle ex prostitute, alle donne sole con figli, ai marinai
senza imbarco, agli operai di fabbrica disoccupati, a giovani coppie
prive di mezzi, ad invalidi.
Burocrati arroganti
Una volta al giorno, una
volta alla settimana, una volta al mese costoro devono convincere i
funzionari di turno della legittimità delle loro richieste, devono
raccontare le loro storie personali, ripeterle, con un misto di
umiliazione e rassegnazione.
Il partito comunista, sin
da quando il sistema di assistenza fu sancito per legge, fece opera
di agitazione e mobilitazione tra gli aspiranti all’assistenza
perché superassero, con comportamenti collettivi, l’intenzione
della burocrazia di dividerli e perché non accettassero di
presentarsi con atteggiamento dimesso ma con atteggiamento di chi
rivendica un diritto.
In tal modo il
comportamento degli assistiti, grazie alla propaganda comunista,
divenne sempre più perentorio e aggressivo, creando forti reazioni
nei funzionari e un irrigidimento della struttura. Nell’ultimo
numero della rivista Werkstattgeschichte, vengono riportati le
testimonianze di decine di episodi di assalti, di scontri, di minacce
ai funzionari, con continui interventi della polizia.
(…) Se questa
situazione provocava tensioni e disagi già nei periodo precedente
alla Grande Crisi, si può immaginare quanti ne abbia provocati con
lo scoppio e l’aggravarsi della crisi stessa e con il fatto che,
come abbiamo visto, sul sistema di assistenza comunale si riversò di
colpo una massa di milioni di persone, espulse dal sistema
previdenziale statale; tuttavia fu proprio allora che il ruolo del
sistema assistenziale, in quanto sistema di controllo e di
schedatura, emerse in tutta la sua portata. Con il radicalizzarsi dei
rapporti tra la struttura e l’assistito nel corso della Grande
Crisi, la struttura stessa perde quasi del tutto il suo carattere di
servizio sociale e diventa sempre più un sistema poliziesco
supplente nei confronti delle parti più deboli della società.
Continuità statale
È
qui che si innesta il sistema nazista. Uno degli
argomenti di fondo della ricerca sugli emarginati nel periodo finale
della Repubblica di Weimar riguarda il ruolo svolto dal sistema
assistenziale. Su questo la nostra Fondazione ha fatto una ricerca
molto importante, che riguarda la storia dell’assistenza comunale
ad Amburgo (il volume, curato da Angelika Ebbinghaus, è uscito nel
1986 e ha per titolo Opfer und Täterinnen). Che cosa ha messo
in luce questa ricerca? Che il personale della burocrazia
assistenziale, in gran parte femminile, è passato senza traumi dal
governo socialdemocratico al governo nazista. I nazisti hanno
rilevato quasi tutto l’organico e gli hanno chiesto di lavorare
come prima, cioè di continuare a esercitare la funzione di
sorveglianza, controllo e schedatura e hanno costruito una struttura
parallela di selezione degli emarginati, su basi biologiche e
razziali.
La struttura
assistenziale, fatta di operatori socio-sanitari oltre che di
personale amministrativo, forniva una serie di informazioni sui
singoli soggetti, sui singoli «casi», alla struttura che doveva
intervenire sul piano della segregazione o dell’annientamento
fisico delle persone (internamento in campi di lavoro, in cliniche
psichiatriche, o sedicenti tali, dove venivano praticate la
sterilizzazione forzata e altri interventi di «eugenetica»).
La maggioranza di queste
persone venne ritenuta possibile di trattamenti di segregazione e di
annientamento in quanto Asozialen, asociali, perché da troppo
tempo disoccupati, perché avevano commesso piccoli delitti contro il
patrimonio, perché si erano prostituiti, perché avevano malattie
considerate ereditarie, perché erano portatori di invalidità gravi,
perché avevano comportamenti matrimoniali e/o sessuali irregolari,
perché avevano ripetutamente assunto comportamenti di protesta e
antagonisti nei luoghi di lavoro o contro rappresentanti delle
istituzioni (è il caso della maggioranza dei simpatizzanti
comunisti), perché avevano cambiato troppo di frequenza residenza o
semplicemente perché erano stati colti troppe volte su mezzi di
trasporto pubblico senza biglietto.
Una larga parte dei
poveri e degli emarginati venne quindi definita «asociale» sulla
base delle informazioni raccolte dagli uffici di assistenza e
riportate nelle schede personali ed avviati quindi a un processo di
selezione che non fu soltanto un processo di selezione razziale ma
anche un processo di selezione sociale.
La maggioranza degli
internati nei campi, all’inizio del regime nazista, era composta da
questi cosiddetti «asociali», che successivamente verranno chiamati
con il termine di gemeinschaftsfremde («estranei alla
comunità»). Ancora nel 1941 c’erano 110 mila detenuti tedeschi
non ebrei nei campi di concentramento, internati come Asozialen.
La politica di selezione della razza non è quindi nata su base
etnica, ma è nata per affrontare la questione sociale, eliminando
fisicamente gli emarginati. Su questo si è sviluppata la politica
eugenetica nazista o, come fu chiamata, la «politica demografica»
(Bevolkerungspolitik). I primi lager, i primi campi di
concentramento furono le «case di lavoro» (Arbeitshauser),
ossia gli ospizi dove erano alloggiati coloro che in cambio del
sussidio di assistenza dovevano prestare un lavoro obbligatorio. È
lì che è nato il sistema concentrazionario nazista.
Paghe in natura
In base alla legge del
1924, istituiva dell’assistenza ai poveri, veniva anche fissato per
legge il lavoro coatto. Orbene, quando Hitler realizzò i primi
provvedimenti di avviamento al lavoro per riassorbire a tappe forzate
la disoccupazione, lo fece richiamandosi alla legge istitutiva del
lavoro coatto. La legge del primo giugno 1933 (Gesetz zur
Verminderung von Arbeitslosigkeit, ossia la «Legge per la
riduzione della disoccupazione»), una delle leggi-quadro più
importanti di politica attiva del lavoro, si richiama esplicitamente
alle norme sul lavoro obbligatorio del 1924.
Il rapporto di lavoro è
un rapporto che non dà diritto a una retribuzione, i servizi in
natura che egli riceve, cioè vitto e alloggio, sono parte integrante
dell’erogazione assistenziale, la quale si configura giuridicamente
come un atto di diritto pubblico. Il riassorbimento della
disoccupazione da parte del governo Hitler nei due anni successivi
viene realizzato affidandosi a questo strumento di ordine giuridico.
Il regime nazista si
vantò di avere riassorbito nel giro di due anni un numero di
disoccupati pari a circa 8 milioni; non bisogna dimenticare che circa
il 70 per cento dei posti di lavorocreati dalle politiche attive di
occupazione del regime nazista riguardava lavori che facevano parte
del grande programma di opere pubbliche di tipo infrastrutturale
(come le autostrade). La forza-lavoro così impiegata rientrava nel
quadro giuridico del lavoro obbligatorio (Pflichtarbeit).
Questa è la ragione anche del crescente malcontento che si diffuse
tra questi lavoratori e che negli anni 1935-36 diede luogo a quello
che alcuni hanno definito un vero e proprio «ciclo di scioperi».
Furono segnalate dalle autorità di polizia e dagli organi del
partito nazista 260 fermate sul lavoro, la maggior parte delle quali
si verificarono nei cantieri per la costruzione delle autostrade o in
cantieri di altre opere pubbliche.
Gli scarsi dati a
disposizione relativi alle figure che hanno svolto un molo di
agitatori o di iniziatori
o di organizzatori di
queste fermate, mettono comunque in evidenza che la grande
maggioranza degli operai più attivi nelle protesta aveva dietro di
sé esperienze, sia pure brevi, di prigionia e di internamento nei
campi.
Militarizzazione
forzata
Questi elementi, e il
dato di fatto che la grande maggioranza dei lavoratori sono stati
avviati al lavoro in maniera più o meno coatta, rendono poco
credibile la tesi che il regime nazista sia stato un esempio molto
avanzato di keynesismo. Più esatto sarebbe dire che il regime
nazista ha combinato assieme alcune formule che potremmo chiamare
keynesiane (finanziamento di opere pubbliche per creare posti di
lavoro) con i meccanismi di tipo assistenziale ereditati dall’epoca
weimariana e con un sistema di coercizione e di repressione dentro il
quale il Lager è una componente essenziale della politica del
lavoro. Insomma l’erogazione di spesa pubblica per riassorbire
disoccupazione potè sussistere solo all'interno di un regime del
lavoro dove non solo sono sospese le variabili di mercato ma sussiste
una vastissima area in cui il lavoro è considerato al di fuori delle
regole del codice civile ed è un fattore affidato in buona parte
alla discrezionalità del potere esecutivo, cioè è un lavoro
militarizzato. Dunque l’atteggiamento prevalente del nazismo nei
confronti della classe operaia è quello che porta non alla sua
promozione e/o emancipazione ma alla sua militarizzazione.
"il manifesto", 9 giugno 1994
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