Woodrow Wilson nel 1912 |
Il nome di Woodrow
Wilson, ventottesimo presidente degli Stati Uniti, è soprattutto
associato all’intervento americano nella Prima guerra mondiale del
6 aprile 1917. L’obiettivo proclamato da Wilson, che rimase alla
Casa Bianca dal 1913 al 1921, era trasformare il conflitto nella
«guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre» e in una pace
«senza vincitori né vinti», con la creazione di un sistema
multilaterale di relazioni internazionali volto a trasferire i futuri
conflitti dal piano militare a quello giuridico. I suoi «14 punti»
dovevano disegnare un’Europa nuova, sulla base dei principi di
autodeterminazione dei popoli, di libertà commerciale e di
abolizione della diplomazia segreta, per concludere con la creazione
di una Società delle Nazioni come garante di «indipendenza politica
e integrità territoriale tanto per i grandi Stati quanto per i
piccoli». A cent’anni dalla scelta che avrebbe cambiato le sorti
del XX secolo, ne discutiamo con Manfred Berg, americanista e
professore dell’Università di Heildelberg (Germania), che ha
appena pubblicato il volume Woodrow Wilson. Amerika und die
Neuordnung der Welt («Woodrow Wilson. L’America e il nuovo
ordine mondiale»).
Qual
era il retroterra culturale e politico di Wilson? Da dove nascevano i
suoi progetti di riordino delle relazioni internazionali?
«Sia il padre che il
nonno paterno di Wilson erano sacerdoti presbiteriani. Crebbe dunque
in un ambiente caratterizzato dalla tradizione calvinista. Fortemente
religioso egli stesso, Wilson era convinto di essere uno strumento di
Dio. Sebbene dimostrasse spesso e volentieri un’alta considerazione
di sé, sgradevole per alcuni, non corrispondeva al “teocrate”
tratteggiato dai suoi detrattori. Le sue idee di “patto” tra le
nazioni avevano certo radici protestanti, ma risultavano attraenti
anche per molte persone estranee a influenze calviniste. Nato nel
1856, Wilson crebbe nel Sud degli Stati Uniti all’indomani della
Guerra civile. Questo ne faceva un democratico “per nascita”, ma
non un fautore del mito eroico sudista (la cosiddetta Lost Cause).
Certamente dava per scontata la supremazia bianca: era un razzista
per i nostri standard, ma all’epoca le sue opinioni razziali
corrispondevano a quelle dominanti. Wilson era un intellettuale:
prima di entrare in politica, era stato professore di Storia e
rettore dell’Università di Princeton. Da governatore del New
Jersey e poi da presidente, Wilson fu un riformatore progressista i
cui risultati (creazione della Federal Reserve, leggi antitrust,
ecc.) sono ampiamente riconosciuti. Tuttavia, prima del 1914 non
aveva nutrito progetti di riforma delle relazioni internazionali: il
suo programma di internazionalismo liberale fu essenzialmente una
risposta ai disastri della Grande guerra».
Wilson resta discusso:
un’icona per chi crede nel multilateralismo, un ingenuo ideologo
per chi lo accusa di pericolose velleità. Qual è il suo giudizio?
«Dobbiamo fare
attenzione a non cadere negli stereotipi che vogliono Wilson come un
ingenuo idealista. Piuttosto, era per molti versi un realista e
certamente un nazionalista che tenne sempre d’occhio gli interessi
degli Stati Uniti. Eppure era fortemente convinto che il vecchio
sistema europeo della politica di potenza avesse condotto all’abisso
della Prima guerra mondiale e che dovesse lasciare il passo a un
nuovo ordine mondiale fondato sulla sicurezza collettiva,
l’uguaglianza delle nazioni, l’autodeterminazione, la democrazia
e il libero commercio. Perseguì questi obiettivi con determinazione,
ma non fu in grado di riconoscere i compromessi a cui era obbligato.
La sua grande tragedia fu il rigetto della Società delle Nazioni da
parte del Senato Usa: una tragedia però da imputare largamente allo
stesso Wilson, incapace di accettare le riserve espresse
dall’opposizione. E tuttavia dubito che la partecipazione
statunitense alla Società delle Nazioni avrebbe prevenuto la Seconda
guerra mondiale».
L’allora primo
ministro francese Georges Clemenceau accusò Wilson di «candore»;
il premier britannico David Lloyd George, evocando l’idealismo di
Wilson e il nazionalismo di Clemenceau, dichiarò più tardi di
essersi trovato a disagio «tra Gesù Cristo e Napoleone». Come si
può distinguere tra ideologia e concretezza nella retorica
wilsoniana? Quanto realmente credeva nell’applicabilità dei suoi
principi?
«Le battute di Lloyd
George e Clemenceau sono divertenti, ma non dobbiamo cedere alle
caricature interessate. Fondamentalmente gli alleati non
condividevano la fede di Wilson nella Società delle Nazioni come
futura garante della pace mondiale. Essi furono piuttosto costretti
ad adattarsi, dato che gli Stati Uniti erano il principale attore
della conferenza di pace di Versailles. Inoltre, Wilson era
estremamente popolare presso le popolazioni dei Paesi alleati: al suo
arrivo in Europa fu salutato come un messia da milioni di persone.
Semmai, una simile accoglienza fece credere a Wilson di rappresentare
davvero l’interesse dell’umanità. Per quanto mi riguarda, non ho
dubbi che credesse fermamente alla propria retorica».
Parte della
storiografia riconduce l’impegno wilsoniano alla necessità di
contrastare un altro forte disegno ideologico: quello della
rivoluzione bolscevica, che a suo modo voleva «porre fine a tutte le
guerre». Secondo lei esiste una correlazione così stretta?
«Si tratta certamente di
un’interpretazione influente ma a mio parere esagerata, poiché
tende a proiettare la logica della guerra fredda in retrospettiva.
Pur diffidando dei bolscevichi, Wilson non si impegnò in alcuna
crociata contro di essi. I suoi “14 punti” contenevano persino
delle avance al nuovo regime al fine di mantenere in guerra la
Russia. Wilson era anche riluttante a concordare con i propositi
alleati di intervento diretto e in ogni caso il coinvolgimento
statunitense nella guerra civile russa rimase limitato. Ritengo anche
fuorviante ritrarre Wilson e Lenin come veri rivali negli anni tra il
1917 e il 1919. Il primo era il leader del Paese più potente del
mondo, con un programma che dominava l’agenda internazionale. Lenin
era un rivoluzionario il cui successo appariva molto incerto e che
avrebbe potuto concludere la sua vita davanti a un plotone
d’esecuzione. Wilson temeva che povertà e indigenza accrescessero
l’attrazione europea per il bolscevismo, ma era pur sempre convinto
che il modello liberale avrebbe prevalso».
A molti l’avvento di
Trump sembra segnare la chiusura di un secolo di interventismo
statunitense nel mondo e soprattutto l’accantonamento della
«relazione speciale» tra Usa ed Europa. Qual è la sua opinione?
«Certamente Donald Trump
abbraccia una tradizione politica fortemente contraria
all’internazionalismo liberale di ascendenza wilsoniana. Wilson
riteneva che il sistema statunitense di capitalismo
liberal-democratico fosse un modello per il mondo e che gli Stati
Uniti dovessero fornire la leadership necessaria ad assicurare un
ordine mondiale fondato su principi “americani”. Al pari dei
critici nazionalisti di Wilson, Trump ritiene che gli Stati Uniti
debbano preservare la sovranità assoluta e perseguire i propri
interessi nazionali senza prendere impegni vincolanti. Tuttavia il
nazionalismo di Trump non significa necessariamente che gli Stati
Uniti diventeranno spettatori isolazionisti della politica mondiale.
Trump vede le relazioni internazionali come un gioco a somma zero,
nel quale gli Usa devono necessariamente rimanere l’attore più
forte, in grado di dominare unilateralmente e, se necessario, con
mezzi militari. Trump non ha alcuna particolare vocazione a
perseguire buone relazioni tra Europa e Stati Uniti, ha dichiarato il
proprio disprezzo per l’Unione Europea e preferirebbe certamente
trattare con ogni Paese europeo singolarmente. Apparentemente è
ignaro delle ragioni sia politiche che economiche per cui gli Usa
hanno promosso l’integrazione europea dopo la Seconda guerra
mondiale».
Per concludere, non
può sfuggire la coincidenza che sia uno storico tedesco a parlare
oggi di Wilson. D’altro canto lei fa parte di una generazione che
più di altre ha avuto l’opportunità di vivere e lavorare negli
Stati Uniti. Ritiene che ciò abbia avuto un’influenza nel modo in
cui lei analizza passaggi fondamentali di storia degli Usa, e in
particolare la vicenda di Wilson?
«Ovviamente faccio parte
di una generazione formata dalla convinzione che la Germania debba
rimanere fermamente ancorata alla tradizione politica occidentale e
all’Alleanza atlantica. Durante la prima parte del XX secolo,
l’ignoranza della politica, della cultura e della potenza
statunitense fu un fattore determinante nelle decisioni delle élite
tedesche. Nel libro sostengo che Wilson volesse evitare l’ingresso
nella Grande guerra. Le leadership civili e militari tedesche
sottovalutarono grossolanamente il potere statunitense e optarono per
la guerra sottomarina illimitata all’inizio del 1917, lasciando
Wilson senza alternative. Sostengo anche che Wilson non «tradì» i
tedeschi alla conferenza di pace, ma che al contrario la Germania
beneficiò del suo intervento. Ciò detto, ritengo che sia necessario
superare vecchie logiche di accuse reciproche per cercare piuttosto
di comprendere come Wilson sia stato una delle figure chiave della
storia del XX secolo».
La Lettura – Corriere
della sera, 26 marzo 2017
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