19.6.17

Duchcov, Boemia. Casanova giace qui (Vaclav Sedy)

Duchcov, Boemia nordorientale. La facciata del "castello".

«Oggi sono venuto a sapere da una persona che è appena arrivata da Duchcov che il nostro Casanova è veramente lì». Con ciò J.F. Opitz, uno degli amici più stretti degli ultimi anni, confermava la notizia del conte Lamberg di Brno che Casanova si era stabilito a Duchcov, nel castello del conte Waldstein, di cui era diventato bibliotecario. Giacomo Casanova, veneziano, irresistibile amante, avventuriero, imbroglione, ma nello stesso tempo filosofo, diplomatico, scienziato e scrittore, conoscente e amico di tutti i potenti e di tutte le personalità dell’Europa di allora, trascorse prima della sua partenza definitiva per la Boemia, nel 1785, un lungo periodo a Vienna, come segretario dell'ambasciatore di Venezia, Foscarini. Con la sua morte improvvisa perse però il protettore, nonché il datore di lavoro. Una situazione che aveva già vissuto. ma questa volta si rendeva conto del peso degli anni e dello sfavorevole andamento degli eventi.
Così Casanova cominciò a carezzare l’idea di entrare in monastero. Presto però l’abbandonò e si mise alla ricerca, di un nuovo posto, questa volta a Berlino, dove sperava di ottenerlo presso la biblioteca dell’Accademia.
Durante il viaggio verso il nord. Casanova sostò a Brno dal suo amico, conte Lamberg, conosciuto a Parigi. Da lui ricevette una lettera di raccomandazione per J.F. Opitz di Càslav, che si trovava sulla strada. Volendo raggiungere in breve tempo la principessa Lubomìrskà, che allora soggiornava a Karlove Vary e sulla quale nutriva delle speranze. Casanova promise a Opitz di fermarsi ancora da lui al ritorno, precauzione che testimonia della sua poca fiducia nel successo del viaggio. A Teplice si incontrerà col conte Waldstein. Si erano conosciuti un anno prima dall'ambasciatore Foscarini, dove Casanova aveva attirato l’attenzione di Waldstein con la sua dottrina in fatto di cabala e magia. Forse fin d’allora gli venne offerto il posto di bibliotecario a Duchcov, ma Casanova non aveva ancora alcun motivo di accettare.
Ora Casanova stava esaurendo le forze, ma anche i soldi, aveva sessantanni, sentiva che l'età non gli avrebbe permesso la vita che aveva condotto finora. Forse nutriva qualche speranza su Waldstein, ma non era sicuro della buona riuscita del loro incontro. Duchcov, sede del castello di Waldstein, era una piccola cittadina che non arrivava al centinaio di case, né al migliaio di abitanti. Casanova divenne bibliotecario in questo luogo così diverso dalle grandi città nelle quali aveva fino ad ora dimorato; il castello di Duchcov, per la vita di società, era fuori mano, anche se si animava durante i soggiorni del conte.

La querela del maggiordomo
Waldstein, al tempo dell’arrivo di Casanova a Duchcov, aveva trent’anni. Era un grande amante della vita mondana, un giramondo, uno sportivo, un appassionato di cavalli. Sembra che per Casanova avesse una straordinaria simpatia, un'affinità e forse anche un certo rispetto. Di natura romantica e incline all’avventura egli stesso, aveva indubbiamente della comprensione per gli avventurieri. A Duchcov viveva anche un tal barone Maximilian Josef Linden, di undici anni più giovane di Casanova, che gli sopravvisse per molti anni ancora. Come Casanova e lo stesso Waldstein, era membro della massoneria. Linden si interessava di alchimia e pubblicò nel 1801 a Praga un’opera su argomenti riguardanti la fisica, la tecnica e la chimica. Il libro è dedicato al conte Waldstein e dalla dedica abbiamo notizie della vita a Duchcov, ma soprattutto dell'alto e bruno veneziano, che amministrava la biblioteca del castello.
Per quanto Casanova non prendesse molto sul serio le sue responsabilità di bbliotecario, la sua vita non era facile. Al castello di Duchcov era circondato da persone che non simpatizzavano con lui. Non passava giorno che l’attempato Casanova non avesse una lite a causa del caffè, del latte, o per un piatto di maccheroni; lo scudiero gli aveva assegnato un cocchiere incapace, il cuoco gli aveva rovinato la polenta, non era stato presentato a un ospite straniero di riguardo. Parlava tedesco e non lo capivano; lui si arrabbiava e loro sghignazzavano. «Cospetto!» diceva, «siete dei furfanti, siete tutti giacobini, offendete il conte e il conte offende me perché non vi punisce!»
Il Principe Charles de Ligne, zio di Waldstein, che viveva nella vicina Teplice, nel suo «Fragment sur Casanova» menziona una di queste scaramucce con il personale del castello. Tutta la faccenda finì in tribunale per una denuncia di Casanova; tra le sue opere postume è stata ritrovata una bozza in latino da lui scritta: «Tutta la servitù del castello afferma di avere visto il mio ritratto appeso a una parete del gabinetto, imbrattato di escrementi. Perché l’ignominia fosse maggiore, Karel Viderol, servitore del conte Waldstein, ha scritto il mio nome sul ritratto e ha ammesso di averlo appeso lì per offendere la mia persona. Ho in mano il corpo del reato. Questa è un'offesa di prim’ordine. Chiedo alla giustizia che egli venga punito seconda la legge».
Casanova, abbandonato, dava sfogo alla sua indignazione nelle lettere, molte volte nemmeno spedite, ma che sarebbero diventate importanti documenti sui fatti che gli avevano reso la vita difficile. Uno dei destinatari di queste lettere era il maggiordomo Feldkirchner, che, a quanto pare, era l’ideatore delle molte malignità che avevano infastidito Casanova nel periodo di Duchcov. Ma le lettere servivano solo al loro autore che si risarciva cosi dei torti subiti, e soprattutto dei cupi stati d’animo dovuti alla solitudine spirituale e intellettuale.
Dalle lettere non inviate, ma anche dai dialoghi dedicati alla persona di Jakub O'Reilly, irlandese, medico di Duchcov, coinvolto nelle controversie di Casanova con il personale del castello, è evidente che i servitori del conte erano dei maliziosi tormentatori, ma anche che Casanova li provocava con la sua suscettibilità e i suoi sospetti, a volte sconfinanti nella paranoia. Sicuramente la servitù del castello non era una piacevole compagnia, ma in fin dei conti Casanova interpretava ogni sguardo bieco o anche solo qualche piccolo caso come un complotto contro la sua persona, o come un’offesa al suo onore.


Casanova in viaggio verso Praga
Le eterne liti e i malintesi con il personale del castello, cresciuti con l’assenza del conte, costringeranno Casanova a fuggire da Duchcov per Horni Litvinov, altra residenza di Waldstein, e ad attendere che gli venga fatta giustizia col ritorno del conte. E vincerà: Wiederholt, così in realtà si scriveva il cognome del servitore del conte, e Feldkirchner furono licenziati. Ma ciò non bastò a congedare le angustie di Casanova.
Pur con l’opportunità di frequenti viaggi a Teplice, ma anche a Praga, dove soggiornerà per un certo periodo, pensava continuamente a una partenza definitiva da Duchcov. Approfittando dell’assenza del conte, si fece rilasciare delle lettere di presentazione dal principe Charles de Ligne, e si recò a Weimar e a Berlino, in cerca di un lavoro migliore. Incontra il duca di Weimar, tuona contro i tedeschi e la letteratura tedesca, contro Goethe e Wieland, protetti del duca; a Berlino, poi, contro gli ebrei, dai quali peraltro si fa prestare danaro dietro cambiali addebitate al conte. Nonostante tutto, una volta saldati i debiti, il conte riaccoglieva Casanova a braccia aperte.
Le frequenti crisi depressive che angustiavano Casanova gli fecero anche prospettare il suicidio: «La mia vita è un fardello insopportabile. Qui è l'essere metafisico che mi impedisce di togliermi la vita? E’ la natura?... Qui non potest vivere bene, non vivat male», scrive in uno dei suoi manoscritti, la «Courte réflexion d’un philosophe qui se trouve dans le cas de penser à se procurer la mort».
Il conte non si interessava più troppo né di Casanova, né del suo lavoro di bibliotecario. Anche se era chiaro che non avrebbe mai mantenuto la promessa di scrivere l’«Albertiade», poema epico in onore di Albrecht Waldstein, un parente lontano del conte, distintosi nella guerra dei Trent’anni, non si può dire che Casanova stesse in ozio. Si dedicava alla corrispondenza con amici e conoscenti e soprattutto al lavoro letterario.
Quando Casanova arrivò a Duchcov era già conosciuto come scrittore, anche se si assicurò l’immortalità nella storia della letteratura con le «Memorie». Il libro storico-politico «Confutazione della Storia del Governo Veneto di Amelot de la Houssaie», scritto a matita nelle prigioni spagnole in 42 giorni, a memoria, senza annotazioni e punti di riferimento, gli aveva permesso di tornare a Venezia dopo tanti anni, ma il libello «Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita» fu la causa della sua definitiva partenza dalla città natale. Il Casanova autore di opere storico-scientifiche, utopistiche, filosofiche, ma anche di trattati matematici, si distingue dal Casanova autore di lettere e di dialoghi, per la leggerezza stilistica. Con la stessa leggerezza aveva rimaneggiato il brano del secondo atto del «Don Giovanni» di Mozart sulla base del libretto dell’altro veneziano Da Ponte, che Casanova frequentò anche durante il suo soggiorno praghese. Non esistono prove che Casanova abbia partecipato alla stesura del libretto o che questo sia stato rappresentato con una sua elaborazione, ma l’interesse di Casanova all’opera di Mozart indica un’identificazione col Don Giovanni, considerato anche lui una vittima delle seduzioni femminili:
«M’astrinse a mascherarmi
Egli di tanti affanni
È l’unica cagion.
Colpevole non son
La colpa è tutta quanta
Di quel femineo sesso
Che l’anima gl’incanta
E gl’incanterà il cor.
O sesso seduttori
Sorgente di dolor!
Lasciate andar in pace
Un povero innocente .........»
Non sappiamo se Casanova fosse presente al successo di Mozart del 29 ottobre 1787, quando l’opera fu accolta così calorosamente dal pubblico praghese.
L’amico di Casanova, Da Ponte, alla vigilia della prima fu richiamato a Vienna con una lettera di Salieri, direttore dell’Opera viennese. Da Ponte nelle sue memorie non ne fa menzione, ma sappiamo che Casanova si trovava a Praga in quel periodo ed è difficile immaginare che disertasse quella serata al teatro degli Stati.

I benefici raggi dei mega-micro
L’ambiente del castello di Duchcov, che aveva procurato a Casanova tante pene, era pur sempre meno dispersivo di quello della Vienna imperiale. Quanto più Casanova sfuggiva il mondo, tanto più dava mano alla penna. Non erano solo lettere agli amici, ma anche memorie degli anni trascorsi. Tutta l’Europa conosceva la sua evasione dai Piombi, le prigioni veneziane. Ora era più che mai lontano dai salotti in cui aveva raccontato all’infinito la sua fuga. Per questo si concentra sulla narrazione scritta di quel successo, che lo aveva reso cosi celebre. La «Histoire de ma fuite de prison» uscì per la prima volta nel 1787 presso Schònfeld di Praga, anche se nel frontespizio figura la città di Lipsia. Mistificazioni di quel genere erano allora piuttosto correnti, e per altro non si tratta del primo libro di Casanova stampato in una città diversa da quella indicata. Già un anno dopo uscì a Vienna la traduzione in tedesco, che ebbe ugualmente uno straordinario successo. I lettori conoscevano già questa storia, o ne avevano almeno sentito parlare. Ora trovavano una versione scritta, una vera e propria prova.
I Piombi erano noti in tutta Europa, accompagnati dalla stessa pessima fama dello Spielberg di Brno e della Bastiglia di Parigi, che fu demolita solo un anno dopo. Allora racconti con un simile contenuto erano di moda. Quasi contemporaneamente fu pubblicata «La Fuga» del barone Friederich Trenck, che, come Casanova, figura nella propria storia come una vittima degna di compassione del dispotismo assolutista, ma anche come un eroe temerario, che ha dedicato la sua vita alla libertà.
La seconda opera di Casanova pubblicata a Praga è l'«Icosameron». «Sono trascorsi tre anni dal mio allontanamento da Venezia. È lì che mi è venuta la tentazione di diventare l’ideatore di un nuovo mondo, di un nuovo genere umano, di un nuovo codice civile, di una diversa religione, di una concezione nuova del guadagnarsi la vita, del vivere e convivere, procreare dei discendenti e conquistarsi gli elogi di tutto il mondo». Casanova informa il conte Lamberg ancora da Vienna della sua idea di scrivere un romanzo utopistico. Lo scrive a Duchcov e quando l’opera sarà pubblicata, il suo nome risulterà non a titolo d’autore, ma di traduttore dall’inglese. In questo lavoro Casanova aveva riposto molte speranze, ma ne ricavò non pochi dispiaceri. Non riuscendo a mettersi d’accordo con l’editore praghese, lo finanziò per la pubblicazione dei cinque volumi che formavano l’intera opera.
«Icosameron ou Histoire d’Edouard et d’Elisabeth,...»: i due fratelli Eduardo ed Elisabetta appaiono nella casa dei loro genitori nel febbraio del 1615, 81 anni dopo la loro scomparsa, quando misteriosamente erano penetrti nell'impero dei Megamicro, aU’intemo della Terra...
Casanova per il suo stato ideale non cerca un posto né nell’Universo, né sulla superficie della Terra; punta al suo cuore per costruire un mondo utopico nel quale non vi siano notti, e in cui raggi, portatori di benessere, ricadano verticalmente sulla testa di ogni individuo.
Il romanzo era noioso, così non stupisce la totale mancanza dì interesse con cui fu accolto. Casanova si affrettò a spedirlo a tutti gli amici di Vienna, Venezia e Praga perché lo aiutassero nella vendita. Egli stesso partirà per la Germania nel tentativo di venderlo a Lipsia. Era pieno di debiti, il romanzo non si vendeva, a Jena venne pubblicata una critica negativa non solo dell’«Icosameron», ma anche della «Storia di una fuga». L’autore si infuria, si sfoga con un altro scritto, prepara un opuscolo che dovrebbe spiegare ai lettori lo spirito dell’«Icosameron». L’opuscolo però non venne mai stampato e dai libri contabili del conte Waldstein sappiamo che a Casanova furono versati 2000 fiorini, utilizzati poi probabilmente per saldare i debiti con i tipografi. Ma Casanova si dedicava già ad altri problemi, polemiche di carattere politico, alla matematica e alla critica letteraria.

Che delizia ricordare le proprie delizie
L’idea di scrivere le memorie di tutta la sua vita era diventata più concreta già probabilmente mentre si dedicava alla «Fuga», la cui prefazione era scritta con uno stile che faceva pensare a un’opera di contenuto molto più ampio.
In tutto ciò che faceva Casanova si impegnava con la stessa brusca intensità. La sua capacità di divertirsi, mangiare, dedicarsi agli amici e alle amiche era pari all’energia che metteva nello scrivere e nel lavoro letterario. Probabilmente avvertiva una stanchezza nel raccontare una volta di più le sue avventure, e vi accennava già nella prefazione alla «Fuga», ma la sua anima di vecchio leone non si era certo spenta: «Scrivo ogni giorno per tredici ore, che mi volano via come fossero tredici minuti. Il lavoro alle Memorie sostituisce il riposo. Mentre scrivo ringiovanisco e ritorno uno scolaro. Spesso scoppio a ridere, cosa che mi fa passare per pazzo, dato che gli stolti non credono che un uomo possa ridere da solo. Che delizia ricordare le proprie delizie».
Casanova sapeva che le «Memorie» sarebbero potute uscire solo dopo la sua morte. Non gli importava sapere se avrebbero riscosso successo o meno, né se sarebbe diventato famoso.
Scriveva del tutto liberamente, ma quanto più si inoltrava nel lavoro, tanto più si persuadeva che la sua creazione fosse destinata a finire alle fiamme. Scrivere non era certo per Casanova solo un piacevole divertimento. Tornava al suo passato, riviveva anni ormai cosi lontani, si rendeva sempre più conto che nella piccola Duchcov era circondato da persone e da un ambiente che non si era scelto, e stava per di più trascorrendo gli ultimi anni della sua vita, la vecchiaia, alla quale non poteva ancora rassegnarsi.
Per ironia della sorte, tutte le opere sulle quali egli aveva riposto le sue speranze, ad eccezione della «Fuga», che è una parte delle «Memorie», sono state presto dimenticate. Casanova è diventato famoso, e anzi proverbialmente celebre.
Ma l’immagine che si è conservata è spesso molto lontana dalla sua reale figura, o limitata a un solo aspetto della sua personalità: conquistatore di cuori di leggiadre fanciulle e dame, donnaiolo e seduttore. Il suo modo di narrare le avventure di cui è stato protagonista sta al fragile limite della letteratura erotica, senza mai oltrepassarlo. Ma indipendentemente dalle accuse che hanno reso le «Memorie» così celebri, è certo che alcune delle figure femminili sono frutto della fantasia di Casanova. Viceversa, nelle «Memorie» scopriamo un eccezionale documento sulla seconda metà del XVIII secolo. Basti pensare a tutti i luoghi visitati da Casanova, al numero infinito di persone che conobbe o alle quali venne presentato.
Nelle «Memorie» scorrono l'Italia, la Turchia, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, l’Olanda, l’Impero romano-germanico, la Prussia, la Polonia, la Russia, la Svizzera, i territori austriaci. E poi i nomi dell’Europa più potente di allora: papa Benedetto XIV, Ludovico XV, Giuseppe II, Caterina II, Federico II, e poi quanti uomini di stato, ministri, generali, studiosi e professori universitari, filosofi, e ancora quanti cantanti, attori, artisti della sua epoca. Conobbe le loro mogli e amanti, e a volte con loro le condivise, ottenendone anche di vedere l’altra faccia di fatti e avvenimenti, conoscerne più vere cause.
È stato giustamente detto che, anche se andassero perdute tutte le altre pubblicazioni che rappresentano il XVIII secolo, le «Memorie» da sole basterebbero a rimpiazzarle. Altrettanto fondate sono le critiche: Casanova ha in qualche modo taciuto una serie di vicende, oppure ne ha falsato completamente il racconto, o vi gioca un ruolo del tutto diverso. Secondo Goethe esse sono «Dichtung und Wahrheit», Poesia e Verità, mai interamente verità, mai interamente poesia.
Sul tempo in cui vennero terminate le «Memorie» vi sono solo supposizioni. La prima versione fu certamente ultimata già tra il 1792 e il 1793. Casanova stesso si augurava di finire di scrivere la storia della sua vita fino ai 50 anni, «dato che in seguito non avrei da narrare altro che tristi vicende; ho scritto le ’Memorie’ solo per potermi divertire con i lettori, ora li affliggerei e francamente non ne vale la pena». Dalle sottili variazioni dei manoscritti, depositati presso la casa editrice Borkhaus, che pubblicò l’opera per prima a vent’anni dalla morte dello scrittore, possiamo supporre che la prima versione ebbe un carattere più filosofico, ma anche più spontaneo. Nel corso degli anni Casanova rielabora il manoscritto, ma alcune parti saranno ultimate solo pochi mesi prima della morte. Una malattia incurabile alla vescica, che lo costrinse a letto, gli impedì di lavorare oltre e la morte il 4 giugno 1798 pose fine alla sua opera.
Casanova morì al cospetto del conte Waldstein e del principe de Ligne, il quale scriverà di questa morte nel «Fragment sur Casanova»: «Poiché ogni giorno di più andava perdendo il suo appetito, rimpiangeva poco la vita, ma la concluse nobilmente rivolgendosi a Dio e all’umanità: Buon Dio e voi testimoni della mia morte, ho vissuto da filosofo muoio da cristiano».
Casanova fu seppellito con gli onori dovuti alla presenza di quasi tutti gli abitanti di Duchcov, vicino alla cappella di Santa Barbara. Erano tempi agitati e ci si scordò presto di Casanova. Per un lungo periodo non si seppe nemmeno dove fosse sepolto e a quanti anni fosse morto. A ciò contribui anche l’errore del compilatore del registro di Duchcov, che segnò la morte di Casanova all’età di ottantaquattro anni, mentre ne aveva settantatré. Quando un secolo dopo il cimitero fu chiuso, scomparvero anche le ultime tracce della tomba di Casanova. Sparì anche la sua lapide, supponendo che ve ne fosse stata una. Ma dato che erano numerosi i visitatori che cercavano la tomba di Casanova, fu posta sulle mura del cimitero una lapide con la scritta: Giacomo Casanova Venedig 1725 - Dux 1798.
Nel febbraio 1922 riprese vita la vecchia leggenda di Duchcov, secondo la quale Casanova, per sua volontà, era stato seppellito nel parco del castello, e non nel cimitero. Gli operai, al lavoro nel parco dietro al castello di Duchcov, avevano ritrovato la pietra sepolcrale, ma non la tomba di Casanova, come scrissero i giornali. Era una lapide modesta e assai strana, in cui nome e data presentavano degli errori: Cassanova XDCCLXXXXIX.
Molti storici non ebbero alcun dubbio sulla sua autenticità, anche se si trattava di una vera e propria falsificazione, cosa della quale erano al corrente solo gli abitanti di Duchcov. Era successo che gli scalpellini che lavoravano al restauro delle statue del parco, avevano scolpito una semplice iscrizione. La fecero dissotterrare da altri operai, e quando la notizia si propagò clamorosamente, non ebbero il coraggio di confessare. I dubbi furono del tutto sfatati grazie all’interessamento di Viteslav Tichy, studioso di Casanova, che conobbe personalmente uno degli scalpellini e descrisse poi tutta la vicenda nel libro «Casanova in Boemia». Come che sia la lapide è conservata nel castello di Duchcov.


Da “Fine Secolo”, Supplemento di “Reporter”, 16 novembre 1985 - Traduzione di Susanna Florio

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