Tiziano Vecellio, Ritratto di Pietro Bembo, particolare |
A Pietro Bembo, uno degli
autori centrali del nostro Rinascimento, arride da qualche tempo una
fortuna che potrebbe riscattarlo da un lungo oblio, o almeno da una
posizione ingiustamente defilata. Sebbene il suo peso per la storia
della lingua e della letteratura italiane non sia affatto inferiore
rispetto a quello di altri giganti del Cinquecento, come Ariosto o
Machiavelli, di fatto la sua presenza nella cultura degli italiani è
stata spesso piuttosto defilata, come mostra il ruolo generalmente
subalterno che egli ha, ad esempio, nei programmi scolastici.
Credo che una parte di
quella che chiamerei sfortuna scolastica – o come si direbbe in
altri campi, scarso successo di pubblico – del cardinale veneziano
dipenda dal suo essere il capostipite della poesia petrarchista. Cioè
di un genere che i moderni hanno spesso faticato ad apprezzare, e i
contemporanei trovano generalmente incomprensibile. Ma la ragione
principale della sua sventura è certo l’essere autore di una
grammatica, e non importa se si tratta della prima grande grammatica
della lingua letteraria, pietra miliare nella riflessione
sull’italiano e nella sua stessa definizione come lingua
letteraria. Si sa, la grammatica è un genere di per sé ostile alla
sensibilità degli studenti, ai quali pare non basti neanche
richiamare il fatto che la parola glamour è appunto una
deformazione di grammar «grammatica», per riscattare quel
termine – e quel concetto – da un’ostinata mancanza
d’attrattività.
Fa notizia, quindi, il
fatto che su Pietro Bembo siano appena usciti vari libri molto
diversi per impostazione e pregio scientifico, ma tutti
potenzialmente utili a estendere almeno nel pubblico colto
l’interesse per l’autore degli Asolani e di quelle che
sono note come Prose della volgar lingua. Tra i prodotti più
curiosi è un volumetto commissionato dalla Fondazione
Barbier-Mueller di Ginevra a Marco Faini, attuale Fellow di Villa ai
Tatti, sede fiorentina di Harvard. La benemerita fondazione
ginevrina, nota per le sue collezioni di arte tribale africana, ha
una sorta di autonoma sezione dedicata alla poesia italiana del
Rinascimento, che si incarica di raccogliere e valorizzare le
edizioni più rare e preziose dei poeti che, capitanati appunto dal
Bembo, fecero dell’imitazione di Petrarca e dell’attualizzazione
dei suoi contenuti la loro missione artistica. Proprio per
raggiungere un pubblico più vasto e disimpegnato di quello
professionale che ben conosce i tesori raccolti a Ginevra (circa 600
volumi a stampa e manoscritti), la fondazione ha promosso una serie
di volumi aperta appunto da una biografia del cardinale. Faini vi
sperimenta uno stile più simile a quello della scrittura narrativa
che a quella saggistica per raccontare, attraverso un’accattivante
alternanza di parole e di immagini, una vita che sembra fatta per
esser messa in romanzo. Fin dal titolo (L’alloro e la porpora),
il volume ricorda certi briosi affreschi di storia veneziana dei
quali uno scrittore da poco scomparso, Alvise Zorzi, fu maestro.
Tutt’altra formula è
invece quella impiegata dallo storico della lingua Giuseppe Patota
per un agile volumetto che punta dritto al Bembo legislatore
dell’italiano. Cioè autore di grammatiche. Nel libro appena
pubblicato dal Mulino, l’attività di Bembo codificatore di lingua
è inseguita tra le pieghe dei suoi scritti e dei suoi manoscritti,
in un’appassionante indagine documentaria che propone di
ridisegnare i tempi e i modi del suo percorso, dalla lettura dei
versi di Petrarca alla pubblicazione della grammatica (a proposito:
come abbiamo già raccontato qualche mese fa in queste pagine, Patota
ha dimostrato che il titolo vulgato, Prose della volgar lingua,
è abusivo, nel senso di mai usato dal Bembo e assente dalle edizioni
da lui controllate). Patota propone di anticipare di molti anni nella
vita di Bembo il nucleo originale dell’opera, e valorizza il suo
ruolo come fondatore non solo della grammatica dell’italiano, ma
anche della stessa riforma terminologica – e quindi concettuale –
che iniziò il lungo cammino di liberazione della grammatica volgare
da quella latina, sulla quale pure resterà ancora lungamente
modellata.
Poco letto, certo, il
Bembo: già ai suoi tempi, quando le Prose parvero subito
dottissime ma concretamente inutilizzabili, perché troppo poco
manualistiche. Poco letto direttamente, ma universalmente e quasi
segretamente conosciuto se, come Patota dimostra, molte delle regole
grammaticali più spesso ripetute dalla tradizione scolastica –
comprese quelle più difficili da giustificare – risalgono
direttamente al cardinale, capace di trasmettere alla cultura dei
quattro secoli successivi non solo la sua dottrina linguistica e
filosofica, ma anche qualche sua fissazione grammaticale dagl’incerti
fondamenti storici. Da lui, lei, loro
inutilizzabili come soggetti, al pronome gli vietato per il
femminile, sebbene già Boccaccio lo impiegasse in tal modo, o alla
preferenza per il tipo io andava su io andavo. Forse
non tutti – compresi gli autori di grammatiche per le scuole –
sanno che simili regole discendono dritte dal Bembo.
[...]
In un percorso di
progressiva severità tecnica ed espositiva, si può infine
consigliare ai lettori più allenati un terzo volume fresco di
stampa: quello con cui la giovane studiosa svizzera Amelia Juri si è
accostata a un versante pochissimo frequentato della poesia di Pietro
Bembo: le Stanze. L’ottava – cioè il contenitore metrico
d’otto endecasillabi in cui sono versate le storie dei grandi poemi
cavallereschi precedenti e successivi, Boiardo Ariosto Tasso – non
è una forma contemplata dalla selettiva poesia petrarchesca, e già
questo rende notevole la sua comparsa tra i metri frequentati dal
Bembo. Le cinquanta ottave del poemetto di cui parliamo nacquero nel
1507, «dettate – come scrive il poeta stesso – in brevissimo
spatio tra danze et conviti, ne’ romori et discorrimenti» della
corte di Urbino, in cui il trentaseienne Pietro era giunto da
Venezia. Nella gioiosa vita della corte urbinate egli cerca sùbito
d’inserirsi con un componimento in cui s’immagina la missione di
due ambasciatori di Venere giunti alla corte per persuadere la
duchessa Elisabetta Gonzaga e la sua fedele compagna Emilia Pio a
cedere ad Amore.
Non può darsi tema più
tipicamente cortigiano, e non può darsi forma – l’ottava – più
affine a un gusto tipico della poesia occasionale e festiva. Troppo
poco, per le raffinate mire del coltissimo veneziano, che riesce
comunque a tramutare un genere per lettori (e ascoltatori) poco
esigenti in un terreno d’incontro fra la raffinatezza di Petrarca e
quella che, di lì a pochi anni, sarà la mirabile fluidità
narrativa dell’ottava ariostesca. Per documentare rigorosamente una
simile suggestione letteraria servono, come mostra il lavoro di Juri,
non solo la capacità di formulare chiaramente le ipotesi, ma anche
quella di documentarle tecnicamente con una serrata analisi metrica,
sintattica e retorica. Nella puntualità dei riscontri formali qui
allineati sta quella che, prendendo a prestito un’etichetta
novecentesca, chiamerei la grammatica della poesia. Cioè il segreto
congegno del suo perfetto funzionamento: ricostruirlo sillaba per
sillaba equivale, per così dire, a mappare il dna dell’armonia
poetica. Ecco come essa si concretizza mirabilmente in una
quadruplice definizione d’amore, richiusa nello spazio di una
Stanza: «Amor è gratïosa et dolce voglia, / che i più selvaggi et
più feroci affrena; / Amor d’ogni viltà l’anime spoglia / et le
scorge a diletto e trahe di pena; / Amor le cose humili ir alto
invoglia, / le brevi et fosche eterna et rasserena; / Amor è seme
d’ogni ben fecondo, / et quel ch’informa et regge et serva il
mondo».
“Il Sole 24 ore –
Domenica”, 8 maggio 2017
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