Quella che segue è la
risposta alla domanda Quale credi sia stato l'errore più grosso
che avete commesso?, che
Giancarlo Greco rivolge a Valentino Parlato nel libro-intervista La
rivoluzione non russa (Manni
2012), dedicato alla storia del “manifesto”. (S.L.L.)
Valentino Parlato tra Vittorio Foa e Lucio Magri |
Quello che fu all’origine
della nascita della rivista e del quotidiano: l’illusione che nella
seconda metà degli anni Sessanta fosse iniziata un’avanzata
impetuosa e inarrestabile del movimento operaio. Fu l’abbaglio
fondamentale ma anche il più provvidenziale. Nella lunga lista delle
idee innate ce n’è una particolarmente resistente, difficile a
morire, che vede nell’errore una sciagura. È un’idea stupida.
La vita dell’uomo, dalla sua nascita alla sua morte, è un insieme
di tentativi a volte azzeccati, a volte miseramente falliti. E se
siamo uomini e non anime belle, lo si deve proprio a questo, alla
capacità di rimettersi in piedi dopo la caduta. Come dice un
proverbio francese: “Cadere sette volte, rialzarsi otto”. E
aggiungerei che l’unico modo per tollerare il logorio quotidiano
della battaglia politica è credere in un avvenire migliore che non
si realizzerà mai, in mancanza del quale per molti il motore della
militanza finisce per diventare l’interesse immediato, il
realistico, pragmatico, postideologico arricchimento della propria
parte. Come dimostrano i nostri conti in banca, noi del “manifesto”
abbiamo perseguito la prima strada, credendo forse in illusioni vane,
ma la cui eticità ha via via alimentato le battaglie del presente.
In questo senso, la
speranza in una rivoluzione italiana ci diede energia per combattere,
talvolta in solitudine, le malefatte e i disastri di oltre un
trentennio. Difficile dire cosa sarebbe l’Italia senza la concreta
difesa della democrazia che tanti come noi, pur vagheggiando un
avvenire socialista, condussero giorno dopo giorno. Cosa sarebbe
stato del nostro Paese se una parte delle sue coscienze non si fosse
fermamente opposta a scenari e tentazioni autoritarie. Questo perché
il capitolo sui nostri abbagli non abbia come colonna sonora una
musica di requiem, bensì una ouverture tragica ma appassionata, e
comunque una ouverture, dunque piena di speranza.
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