Il Duce infilzato con
l’ombrello. Non è una vignetta di Altan su fatti attuali, ma
l’autoritratto che Alessandro Galante Garrone dava - parapioggia in
pugno - dei propri inizi nel giornalismo. Chi lo ricorda vi dirà che
fu un magistrato e uno storico. Nessuno dirà: «Un giornalista».
Eppure era quello che Sandro avrebbe voluto fare fin da ragazzo.
Aveva tredici anni quando nella sua Vercelli fondò con i fratelli un
giornalino, “L’ombrello
impermeabile”, contro il foglio fascista “La
doccia”. Ne compiva quarantasei quando trovò con “La
Stampa” la sua definitiva torre di combattimento.
L’aveva chiamato nel
1955 il direttore Giulio De Benedetti. Ricordava Galante Garrone: «Mi
chiese di rievocare il 25 aprile ‘45 a dieci anni dalla
Liberazione. Disse: “Lei sarà un grande giudice, un ottimo
storico, ma vediamo come se la cava come giornalista”». Se la
cavò. Quell’articolo di prova apre Il mite giacobino
giornalista, nuovo quaderno del Centro Studi Piero Calamandrei di
Jesi, che oggi verrà distribuito nella cittadina marchigiana durante
la celebrazione ufficiale della Liberazione. Un’antologia dei primi
passi di Galante Garrone nel laboratorio di idee, di lingua, di
stile, nel quale avrebbe temprato il suo terzo, definitivo mestiere.
Già nel ‘55 scriveva:
«Nel rapido trascorrere e mutare degli eventi, anche la Resistenza,
e tutto quello che allora confusamente sentimmo, e le istituzioni
combattute e travolte [...] cominciano ad apparirci come un passato,
storicamente definibile». Riteneva «giunto il momento del
ripiegamento critico, dell’esame di coscienza: che non esclude e
anzi presuppone la simpatia profonda per gli ideali che animarono la
Resistenza, ma esige il consapevole distacco dall’opera compiuta, e
ormai risolta senza residui nella realtà in cui viviamo. [...]
Liberiamoci da qualsiasi visione mitica della Resistenza. È la prima
condizione per intendere la storia». E giudicando Il secondo
Risorgimento, appena edito dal Poligrafico dello Stato: «Quel
titolo stesso è finito per diventare una formula retorica che
annebbia la visione della realtà».
Il «mite giacobino» -
come si definiva per il carattere insieme dolce e intransigente - sul
giornale si sarebbe ancora occupato di storia, che pretendeva
«giustificatrice e non giustiziera», ma era pronto ad affrontare i
nodi cruciali della giustizia, della scuola, della famiglia, dei
rapporti tra Chiesa e Stato. A lanciarsi con impeto nelle battaglie
civili.
Prima di entrare tra i
collaboratori della “Stampa”, scriveva sul “Ponte” di
Calamandrei e in seguito avrebbe continuato a scrivere sulla “Nuova
Antologia” di Spadolini, sull’“Astrolabio, sull’“Espresso”.
Ma il quotidiano esigeva altre regole: spazi ridotti, capacità di
sintesi, rapidità. Galante Garrone seppe stare al gioco, si affinò,
acquistò sapienza nella scelta dei temi, prontezza nell’eseguire
quelli che gli venivano commissionati, autorevolezza. Tra le
firme-bandiera della “Stampa”, la sua ha svettato quarantasei
anni filati. Un record di durata, di coerenza, di coraggio.
Fedele alla regola di
Kant: «Fare un uso pubblico della nostra ragione», il professore
per mezzo secolo esercitò la propria sui nervi scoperti del Paese:
l’indipendenza dei giudici, l’invadenza del Vaticano, la
condizione della donna, la laicità della scuola, i diritti delle
minoranze, il delitto d’onore, il divorzio, l’aborto, la censura,
la pena di morte, la dignità del lavoro, il caso Ippolito, il caso
Tortora, il brigatismo rosso e nero, la condanna di Sofri, la fuga di
Kappler, il ritorno dei Savoia, la protezione dell’ambiente. Amante
della musica, dedicò il suo ultimo breve articolo al violinista
Salvatore Accardo.
Scrittura chiara,
pensiero forte, toni moderati, giudizi intransigenti, il giornalista
Galante Garrone - come «giornalisti» furono Aldo Garosci, Leo
Valiani e Norberto Bobbio - fedele al suo alto senso civico e del
vivere civile, non temette ostilità, non si sottrasse ad alcuna
polemica. Più che per l’epiteto di «fazioso» con il quale lo
bollò Silvio Berlusconi soffrì per la solitudine in cui negli anni
finali, lo lasciarono, tranne poche eccezioni, quegli intellettuali
che aveva sperato suoi eredi.
“La Stampa”, 25
aprile 2010
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