Giamaica, Negrili |
Perché prendo una multa
sulla strada per Port Antonio è complicato da spiegare, ma ci provo.
Di certo so perché sto su quella strada lì: perché è bellissimo
quando i bananeti diventano piantagioni di caffè e perché all'hotel
Bonneview Plantation Inn c'è la più bella vista sul più bel porto
del caribe ecc. ecc. E anche perché mi pagano, e questa mi pare la
cosa più straordinaria. Andiamo con ordine, però. E poi a pagare la
multa.
Accade questo: vado a
visitare alcuni dei posti più esclusivi del mondo per conto di
un'ottima rivista di settore (sogni) che si occupa di viaggi. Vado
dove normalmente non potrei entrare nemmeno col mutuo, tipo l'Half
Moon Golf, Tennis & Beach Club di Montego Bay, che una volta che
dici il nome hai già speso 100 dollari. Mi danno una villa di due
piani, con giardino e piscina (privati), baia (privata), tre bagni
coi rubinetti probabilmente d'oro, sala tivù, soggiorno, terrazza,
una cucina grande come casa mia, un frigo con lo champagne ghiacciato
preciso, l'impianto stereo, tivù satellitare e la suite, con un
letto a baldacchino rivestito in broccato rosso grande come un campo
da tennis. Sul quale mi accascio pensando a tre cose: a) la Giamaica
è uno dei paesi più poveri del mondo e una notte qui costa 1.740
dollari, 8-10 mesi di lavoro di un giamaicano medio. b) non c'è
alcun motivo che mi affanni a procurarmi un telo da bagno visto che
ogni mio desiderio è decodificato telepaticamente e un domestico
sorridente me ne porta una dozzina. c) mi trovo tra due fuochi. Come
medissimo ceto medio italiano sono povero e buzzurro per il covo di
miliardari in cui mi trovo e ricchissimo per il restante territorio
della Giamaica.
Sono un ibrido assurdo.
Più che un viaggio è una resa dei conti tra troppo poveri e troppo
ricchi, con un cretino nel mezzo che - tutto si fa chiarissimo - sono
io.
All'Half Moon il tono
generale è inglese con punte di molto inglese e alcune sfumature di
troppo inglese. Faccio snorkelin' poco dopo l'alba nuotando in
mezzo a pesci colorati, perché l'albergo ha il suo pezzo di barriera
corallina (privato) e io ci sguazzo attraverso con una mia (privata)
barca appoggio piena di marinai (privati) sorridentissimi. Poi decido
di andare fuori da lì, in Giamaica. Quella vera intendo.
Mi dico: sarà facile:
c'è una strada che gira intorno all'isola, basta prendere la prima
che vira verso i monti e nessuno si perderà. Due ore dopo vago come
un cieco nella minuscola contea di Labirynth (giuro!), con la Toyota
a noleggio in riserva sparata e tutti che mi guardano come fossi un
marziano. Un poliziotto mi consiglia di guidare in discesa, in folle,
a motore spento, finché vedo la costa. Costa uguale alberghi,
distributori di benzina, cretini come, turisti. Nel frattempo do
passaggi a metà della popolazione studentesca dell'isola (fino a 9
nella macchina), in condizioni di sicurezza e igiene con cui non
farei nemmeno pagato la Milano-Bergamo. Ricordo Renate, 12 anni, che
mi dice lei sa dov'è l'Italia, vicino alla Spagna, “molto money".
Un altro dice “Taliano, figa, coccheina!". Suo fratello ha 17
anni e vive a Mo Bay, la sa lunga.
Dunque è una
contraddizione che non risolvo: non sono pronto per iscrivermi ai
miliardari e mi viene difficile essere accettato dagli indigeni: la
mia macchina da 100 us dollars al giorno e la mia fotocamera mi
rendono automaticamente un conto in banca che cammina. È molto
semplice: devo tornare nel mio limbo cetomedio, sulla Statale Uno,
costa nord, non posso fare altro.
Per questo decido di
andare a Port Antonio. Perché è una via di mezzo nella via di
mezzo: rimani turista - taliano, figa, coccheina! - ma non proprio
nell'edonismo spiaggiato di Negril, e nemmeno nei circoli esclusivi
Old England di MoBay o Ocho Rios. Port Antonio ha il suo Blue Hole,
la pesca d'altura, le Blue Mountains alle spalle, ville da sogno for
rent, ma non ha ancora fatto il salto. Non è più porto bananiero e
non è ancora porto iperturistico: decido di essere medio anche in
questo. E prendo ‘sta multa. Alt, stop, documents. Andavo a 36
(miglia) all'ora in un posto dove si può andare a 30. Scendo dalla
macchina e allargo le braccia il poliziotto mi spiega ridendo: ho
appena fermato un giamaicano, se non fermavo anche il turista bianco,
sai che casino. Mi dà un foglietto rosa con scritto che devo pagare
la multa. Dove? A St. Anne, all'ufficio postale, dove si pagano le
multe. A più di cento miglia da lì. Sghignazza, come a dire... solo
un pazzo, se turista straniero, pagherebbe questa multa. Sembra
strano, ma è per questo che decido di andare a pagarla.
Per andare a St. Ann devi
passare da Ocho Rios, da Oracabessa e fermarti appena prima di dove
arrivò Colombo (Discovery Bay) e di dove scappò a gambe levate
(Runaway Bay, dite che non sanno scegliere i nomi!). L'ufficio
postale ha un'aria condizionata polare, due schermi tivù con una
partita di cricket in diretta e un impiegato che vuole sapere tutto
su mia madre. La Giamaica è una società bizzarramente matriarcale
in cui per pagare una multa devi dire nome, cognome da nubile e data
di nascita di tua madre, anche se abiti dall'altra parte del mondo.
Poi spariscono con il tuo passaporto. A suo modo è inquietante, ma
tutti guardano il cricket in tivù. Dopo due ore mi chiedono di
pagare 20 dollari giamaicani di multa per eccesso di velocità e
guida pericolosa (dettaglio aggiunto lì per lì, in modo decisamente
arbitrario), cioè il prezzo di una Red Stripe, la (buonissima) birra
locale. Per inciso, si chiama così perché ha una striscia rossa che
ricorda l'uniforme dei poliziotti. Pagata la multa, gli indigeni
presenti si complimentano e si dicono ammirati: in anni e anni sono
il primo turista che hanno visto pagare una multa, il che mi rende
oltremodo orgoglioso e, ai loro occhi, oltremodo fesso. Con venti
jamaican dollars in meno e un papiro interminabile in mano,
che certifica il mio essere ligio alle leggi, non mi resta che
camminare fino alla biblioteca pubblica di St. Ann, dove sta una
bella statua in bronzo di Marcus Garvey. Filosofo, professore e
agitatore politico, aveva un sogno (è una mania!): riportare i neri
in Africa. Fu lui che disse: “Guardate al primo re incoronato in
Africa e lui sarà il vostro Dio". Poco dopo Heilé Selassié
diventava Ras Tafari, Negus Neghesti, re dei re, e l'Etiopia
partoriva il “dio in terra". Per questo nell'iconografia
reggae c'è sempre il Negus (accanto a Marley), per questo ci sono
copertine di dischi di mento, di ska, persino di reggae, in cui il
Leone di Zion schiaccia un piccolo, mascelluto, ridicolo Mussolini.
Non ho fiori da lasciare.
Lascio lì, sotto la statua di Garvey, come un ex-voto, la ricevuta
azzurrina della multa e me ne vado canticchiando Redemption song nel
mio malaugurato inglese. Taliano, figa, ganjia, coccheina!.
Riguadagno il ceck-in del Donald Sangster International Airport e
torno a casa. Triste come i tristi tropici, non mi sono nemmeno fatto
una canna. Chissà perché, poi.
“il manifesto”,
supplemento viaggi, luglio 2004
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