Banchieri |
Che fine ha fatto il
borghese, quel personaggio che ha inventato l’organizzazione
capitalistica del lavoro, e ha reso il nostro mondo quello che è?
Sembra essersi fatto di nebbia. È da questo apparente paradosso che
muove l’ultimo libro di Franco Moretti, Il borghese Tra storia e
letteratura, uscito in inglese nel 2013 e ora tradotto da
Giovanna Scocchera per Einaudi.
Pensiamo che la nostra
forma di vita corrisponda all’ultima fase evolutiva della
borghesia, ma in realtà il borghese è scomparso: «Anche se il
capitalismo è più potente che mai (soprattutto in termini
distruttivi, degni di un golem), la sua incarnazione sembra essere
svanita nel nulla», scrive Moretti. Non resta che evocarlo con
quell’atteggiamento «negromantico» sul quale insisteva Michel de
Certeau: la scrittura della storia come rito di sepoltura, dialogo
con i morti, cerimoniale simbolico che risuscita il passato.
Studiando le forme letterarie, nota infatti Moretti, «entriamo in un
regno di ombre, dove il passato riacquista la sua voce e continua a
parlarci». È questo il «possibile contributo» della storia
letteraria «alla conoscenza storica».
Dunque un libro in cui
l’analisi dei testi è strumentale alla ricerca storiografica, in
cui la letteratura è solo un pretesto per parlare d’altro? A prima
vista sembrerebbe di sì, ma è una impressione sbagliata. Il
borghese riserva belle sorprese. L’impianto è articolato ma
perfettamente chiaro: introduzione teorica; primo capitolo sul
prototipo per eccellenza dell’uomo borghese, Robinson Crusoe,
con dialogo a distanza tra Defoe e Weber; secondo capitolo sul
«secolo serio», l’Ottocento, momento trionfale della letteratura
borghese (forse il più discutibile, riscrittura di un saggio del
2001, dove Moretti cerca di ricondurre tutto il romanzo ottocentesco
a un’unica dominante formale, i «riempitivi»); terzo capitolo
sulla cultura vittoriana, baricentro ma anche punto di svolta del
libro; quarto capitolo che si allarga «verso i margini del sistema
mondiale moderno» (Brasile, Italia, Spagna, Polonia e Russia), dove
la coesistenza di ancien régime e capitalismo produce mostri,
vere e proprie «malformazioni nazionali»; ultimo capitolo su Ibsen
dove va in scena il «regolamento di conti» del secolo borghese.
Disseminate tra i capitoli due serie di rubriche fisse, intitolate
Prosa e Parole chiave, che restituiscono la vera
ossatura concettuale (ma anche metodologica) del libro.
Le parole chiave si
basano sull’idea – tratta da Benveniste – che la lingua sia uno
«strumento per dare un assetto al mondo e alla società»: dunque
utile, efficienza, comfort, influenza, roba, serio (nella duplice
versione serious e earnest) sono i principali mattoni
lessicali con cui la borghesia europea ha costruito il suo sistema di
valori e il suo orizzonte simbolico. La prosa è addirittura il «vero
eroe di questo libro»: un eroe per caso, ammette più volte Moretti,
promosso al rango di protagonista in modo preterintenzionale.
Scoprire che il borghese si annidava soprattutto negli stili è stata
«una sorpresa non indifferente»: «non era questo l’obiettivo; è
semplicemente successo», «e ci sono momenti in cui mi stupisco
ancora del fatto che le pagine sugli aggettivi vittoriani potrebbero
costituirne il fulcro concettuale».
C’è qualcosa di
sintomatico nelle formule con cui Moretti quasi si scusa di ciò che
per un critico letterario dovrebbe essere ovvio: studiare le parole,
le etimologie, i campi semantici, le opzioni stilistiche, le
strutture narrative, le formazioni sintattiche e grammaticali –
«persino il ruolo del gerundio in Robinson Crusoe (a prima
vista compito tutt’altro che allettante)». Sintomatico perché è
un tic che ormai contagia molti di noi, studiosi di letteratura,
salvo quelli sordamente e felicemente rinchiusi nei loro minuscoli
appezzamenti disciplinari. Ma quando vince queste inibizioni,
analizzando appunto il ruolo del past gerund nella prosa di
Defoe o l’uso «moralizzato» degli aggettivi nei testi vittoriani,
Moretti tocca i nodi centrali del suo tema, mettendo a frutto con
discrezione anche una delle sue ultime passioni, quella per gli
strumenti informatici usati per l’analisi quantitativa dei corpora
testuali (le digital humanities).
È questa prospettiva un
po’ schizofrenica a rendere, in fin dei conti, così interessante
il libro. Senza esplicitarlo, Moretti fa sua una concezione che viene
da lontano, passando attraverso Flaubert e Proust: lo stile come
«modo assoluto di vedere le cose», non semplice «questione di
tecnica» ma «qualità della visione». Così, la «mentalità» del
borghese è fatta innanzitutto di «strutture grammaticali»,
«associazioni semantiche inconsce», perché «le minutiae
della lingua rivelano segreti che le grandi idee spesso mascherano».
Non è una sorpresa da
poco per uno che, un po’ sul serio e un po’ per épater les
bourgeois, aveva teorizzato il metodo del distant reading (in un
saggio del 2000, Conjectures on world literature), mostrando il
quadro generico di una Letteratura vista da lontano (titolo di un
libro del 2005) attraverso grafici della storia quantitativa, mappe
geografiche e alberi genealogici della teoria dell’evoluzione.
Il borghese segna
insomma una tappa particolare nel percorso critico di Franco Moretti.
Da un lato è un libro di ricapitolazione e conferma, che ritorna su
alcune strade già battute (Il romanzo di formazione, Segni
e stili del moderno, Il romanzo, Atlante del romanzo
europeo). Dall’altro è un saggio critico, perché ridiscute
alcune certezze e riparte verso nuovi territori testuali. Non è un
caso che a chiuderlo sia un drammaturgo e non un romanziere.
È qui infatti che emerge
il significato politico del libro e si sciolgono alcune rigidità
teoriche e interpretative, primo fra tutti l’assunto – mediato da
Lukács, Althusser e Jameson – secondo cui i testi letterari sono
soluzioni simboliche di problemi e contraddizioni sociali. Perché
Ibsen non risolve proprio niente, come a suo modo Flaubert (che forse
in un libro sul bourgeois meritava un ruolo maggiore): fa
coesistere le dissonanze e le lascia aperte, in un mondo
claustrofobico in cui non si respira, in cui non ci sono soluzioni né
alternative alla duplicità atavica del moralismo borghese. È la
coesistenza tra etica del lavoro e violenza predatoria che si vedeva
già nella struttura ibrida del Robinson Crusoe. È
l’ambiguità per cui azioni moralmente sbagliate possono essere
formalmente giuste, non sanzionate dalla legge, nel paradosso di
un’ingiustizia torbida, equivoca e spietata ma perfettamente
legale.
Qui Moretti – e pour
cause – non trova una parola chiave ma mutua un concetto da Primo
Levi, la zona grigia: qualcosa di troppo pervasivo e conforme allo
«spirito del capitalismo» per essere riconosciuto e nominato. E qui
Il borghese diventa davvero un «libro di parte», come
rivendica lo stesso Moretti, nel significato migliore del termine:
non tanto perché menziona lo scandalo Enron o suggerisce un nesso
tra l’Inghilterra vittoriana e l’american way of life, ma
perché rilegge il passato mettendo in gioco la stessa postazione
ideologica da cui lo osserva.
Quando Moretti parla
degli «ideali» e della «legittimità borghese», di un «potere
giustificato da valori», di una classe dirigente che comanda «perché
merita di farlo», sembra di avvertire una sfumatura vagamente
nostalgica, e in fondo si capisce: di fronte alle fantasie
distruttive di squali senza scrupoli, meglio le virtù noiose ma
oneste del buon vecchio realismo borghese.
Forse però la vera
dissonanza sta nel fatto che lo squalo è l’altra faccia del bravo
borghese, non il suo nemico ma il suo compagno segreto. E Moretti,
che lo intuisce soprattutto attraverso Ibsen, avrebbe potuto
spingersi più a fondo. Chissà che non avesse ragione Christian
Buddenbrook, la pecora nera della famiglia: «A guardar bene, però,
ogni uomo d’affari è un truffatore».
Alias – il
manifesto,12.3.2017
Nessun commento:
Posta un commento