Un eccellente intervento
della Ida Magli prima maniera, sul ruolo centrale del potere
religioso maschile, specialmente in ambito cattolico, nella
costruzione di un legame ferreo tra sesso femminile e possessione
diabolica, contro la tendenza a riportare questi fenomeni nell'ambito
del popolare, del tradizionale o del primitivo. Da leggere e meditare
(S.L.L.)
Il bacio osceno della strega al demonio in un disegno tardomedievale |
Non è vero che la
“possessione diabolica”
faccia parte della cultura popolare
faccia parte della cultura popolare
Giovedì scorso, su “la Repubblica”, Natalia Aspesi ha descritto quello che avviene, nel Trevigiano, al Santuario della Madonna di Vedelago. Sono di scena le «indemoniate», con tutto quello che la presenza del «demonico» comporta: pellegrinaggi, turismo, speranza, paura, fede, credulità, ignoranza, speculazione. È vero: sono quasi esclusivamente le donne a sentirsi possedute dal demonio, o ad essere credute tali. Ma non è su questo — sulla possessione diabolica come fenomeno quasi esclusivamente femminile — che voglio soffermarmi, o richiamare l’attenzione dei lettori. L’ho fatto già più volte, e credo che nessuno metta in dubbio che il collegamento fra l'immagine femminile e l’al-di-là tremendo, pauroso, del mondo dei morti e dei diavoli, sia un fenomeno culturale che ha radici profonde, una manifestazione, più o meno consapevole, della volontà degli uomini (dei «maschi») di addossare alla donna la funzione di tramite col trascendente, e al tempo stesso di portatrice della morte e della mostruosità della morte.
So bene che qualche volta
anche i bambini sono stati oggetto di una presunta possessione
diabolica. Ma questo non cambia nulla alla qualificazione femminile
del fenomeno: donne e bambini appartengono, psicologicamente e
culturalmente, allo stesso gruppo, perché vi sono stati assegnati
dai maschi; essi sono, gli uni e le altre, a metà fra l’al-di-là
e il di-qua, e comunque facile preda del trascendente. Non hanno la
pienezza dell’essere uomini.
Neanche può destare
meraviglia, o essere invocato (come spesso avviene), quale fatto che
testimonia il potere positivo attribuito alla donna, la presenza, in
tutti questi fenomeni, della devozione alla «vergine Maria», alla
Madonna. La Madonna è, nella teologia cattolica, la Mediatrice,
colei che ha schiacciato la testa del serpente (il diavolo); ma
questo sia ben chiaro, non già per il suo potere, ma per la sua
obbedienza, per aver cioè accettato di diventare «madre», madre
del Salvatore-maschio. Dunque anche la Madonna, come ogni donna, è
strumento, solo e soltanto strumento di rapporto con l’al-di-là.
Quello che invece vorrei
denunciare oggi, è il «vezzo», degli studiosi - etnologi,
antropologi, storici o etnostorici che dir si voglia - mascherato
come «rispetto» delle cosiddette «culture contadine», di
descrivere tali comportamenti come fenomeni così pieni di
significato «altro», che noi non siamo in grado né di capire, né
tantomeno di giudicare, e che, comunque, abbiamo il dovere di lasciar
sopravvivere per la loro genuinità e autenticità esistenziale.
Tutto questo non solo è storicamente falso, ma, sotto l’etichetta
della neutralità di chi osserva rispettosamente la cultura «altra»,
serve a mantenere, nel modo più impietoso, il dominio su chi meno sa
e meno «deve» sapere, su chi deve rimanere al posto assegnatogli,
di subordinazione e di strumento; su chi, soprattutto, affidandosi ad
un presunto «proprio potere» - quello di essere, sia pure nel
«male», in comunicazione con l’al-di-là - garantisce l’esistenza
stessa di questo al-di-là (esistenza indispensabile per far vivere
una religione, qualsiasi religione).
Non è vero che la
«cultura contadina» produca, o abbia prodotto, diavoli, fatture,
superstizioni, streghe, possedute; non è vero, cioè, che esista una
cultura contadina chi viene dal basso (chiedo scusa: dal «popolo»).
Il modello culturale è sempre alimentato da un insieme di valori, di
idee, che certamente interagisce anche con l’esperienza quotidiana
di tutta la popolazione, ma che è prima di tutto elaborato da chi
detiene il potere ed è in grado di istituzionalizzarlo. La teologia
cattolica ha consapevolmente teorizzato l'esistenza del diavolo, la
funzione mediatrice di Eva-Maria, responsabile dell’ingresso nel
mondo della morte e dell’uomo-Salvatore, ma ha sempre tenuto le
donne nella condizione di ignorare qualsiasi «sapere» teologico,
lasciandole quindi in preda delle conseguenze psicologiche e, ai
tempi del rogo, anche giuridiche di una teoria che esse non erano
minimamente in grado né di criticare né di respingere. (Ricordo, a
quanti non lo sapessero, che è solo in questi ultimi anni, dal
Concilio Vaticano II in poi, che le donne sono state ammesse, sia
pure con molta riluttanza, a studiare teologia).
La «possessione
diabolica» non proviene né dalla cultura contadina né da
misteriosi «poteri» o «peccati» del sesso femminile. Essa è
presente sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, anche se priva
di quella ossessiva caratterizzazione femminile che viceversa ha
assunto nella storia della Chiesa Cattolica.
Il fatto che la Chiesa
finga di ignorar tutto questo, che consideri il fenomeno come frutto
di ignoranza e di superstizione senza peraltro far nulla, né per
cambiare la teoria, né tantomeno per impedirne lo sfruttamento -
spirituale ed economico - sarebbe già gravissimo (ricordiamo che i
preti esorcisti esistono, e sono a tutt’oggi debitamente
autorizzati dai loro vescovi). Ma più grave è il fatto che gli
studiosi, laici o meno, guardino a queste manifestazioni con occhio
distaccato e compunto, dall’alto della loro «coscienza
antropologica», rispettosa di tutto quello che viene dal «popolo»,
con l’apprezzabile scopo di non «colonizzare», non distruggere le
«culture». Questo è certo un problema scientifico e morale di
grande importanza: ma non si può invocare la «coscienza
antropologica» quando ci si trova davanti ad un falso storico
evidente. E sono le donne — la parte più oppressa dell’umanità,
proprio attraverso lo strumento dell’ ignoranza (il sesso femminile
è a tutt’oggi il meno alfabetizzato nel mondo) — che vengono
così chiamate a soffrire nel loro corpo, ancora una volta, la paura
che gli uomini hanno dell’al-di-là.
Mi rendo conto che molto
difficilmente gli antropologi «maschi» abbandoneranno il loro
atteggiamento di irreprensibile e benevolo distacco di fronte ai
fenomeni che la cosiddetta «etno-storia» non solo inventaria
diligentemente, ma si preoccupa anche di salvaguardare come
«patrimonio culturale». Pure, l’antropologia non è, o non è
soltanto, la scienza della descrizione delle culture «altre»; è
soprattutto un modo per ripensare la propria storia, perché soltanto
così è possibile evitare di collocare «l’altro» in un vuoto
psicologico e culturale.
Non è lecito dimenticare
che la «nostra» storia è anche la storia della teologia cattolica,
in cui gli uomini della Chiesa hanno proiettato il loro modo di
guardare al sesso femminile, caricandolo di tutti i loro terrori, di
tutti i loro fantasmi. Chi oggi si vanta di non interferire nei
rituali, le devozioni, le credenze «popolari», di fatto
contribuisce all’oppressione dei più deboli, lasciando loro il
compito di far sopravvivere, senza che sè ne accorgano, proprio le
strutture più radicate della loro oppressione.
“la Repubblica”, 6
giugno 1980
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