5.6.17

Donne “possedute”. Il demonio scende dall’alto (Ida Magli 1980)

Un eccellente intervento della Ida Magli prima maniera, sul ruolo centrale del potere religioso maschile, specialmente in ambito cattolico, nella costruzione di un legame ferreo tra sesso femminile e possessione diabolica, contro la tendenza a riportare questi fenomeni nell'ambito del popolare, del tradizionale o del primitivo. Da leggere e meditare (S.L.L.)
Il bacio osceno della strega al demonio in un disegno tardomedievale

Non è vero che la “possessione diabolica” 
faccia parte della cultura popolare

Giovedì scorso, su “la Repubblica”, Natalia Aspesi ha descritto quello che avviene, nel Trevigiano, al Santuario della Madonna di Vedelago. Sono di scena le «indemoniate», con tutto quello che la presenza del «demonico» comporta: pellegrinaggi, turismo, speranza, paura, fede, credulità, ignoranza, speculazione. È vero: sono quasi esclusivamente le donne a sentirsi possedute dal demonio, o ad essere credute tali. Ma non è su questo — sulla possessione diabolica come fenomeno quasi esclusivamente femminile — che voglio soffermarmi, o richiamare l’attenzione dei lettori. L’ho fatto già più volte, e credo che nessuno metta in dubbio che il collegamento fra l'immagine femminile e l’al-di-là tremendo, pauroso, del mondo dei morti e dei diavoli, sia un fenomeno culturale che ha radici profonde, una manifestazione, più o meno consapevole, della volontà degli uomini (dei «maschi») di addossare alla donna la funzione di tramite col trascendente, e al tempo stesso di portatrice della morte e della mostruosità della morte.
So bene che qualche volta anche i bambini sono stati oggetto di una presunta possessione diabolica. Ma questo non cambia nulla alla qualificazione femminile del fenomeno: donne e bambini appartengono, psicologicamente e culturalmente, allo stesso gruppo, perché vi sono stati assegnati dai maschi; essi sono, gli uni e le altre, a metà fra l’al-di-là e il di-qua, e comunque facile preda del trascendente. Non hanno la pienezza dell’essere uomini.
Neanche può destare meraviglia, o essere invocato (come spesso avviene), quale fatto che testimonia il potere positivo attribuito alla donna, la presenza, in tutti questi fenomeni, della devozione alla «vergine Maria», alla Madonna. La Madonna è, nella teologia cattolica, la Mediatrice, colei che ha schiacciato la testa del serpente (il diavolo); ma questo sia ben chiaro, non già per il suo potere, ma per la sua obbedienza, per aver cioè accettato di diventare «madre», madre del Salvatore-maschio. Dunque anche la Madonna, come ogni donna, è strumento, solo e soltanto strumento di rapporto con l’al-di-là.
Quello che invece vorrei denunciare oggi, è il «vezzo», degli studiosi - etnologi, antropologi, storici o etnostorici che dir si voglia - mascherato come «rispetto» delle cosiddette «culture contadine», di descrivere tali comportamenti come fenomeni così pieni di significato «altro», che noi non siamo in grado né di capire, né tantomeno di giudicare, e che, comunque, abbiamo il dovere di lasciar sopravvivere per la loro genuinità e autenticità esistenziale. Tutto questo non solo è storicamente falso, ma, sotto l’etichetta della neutralità di chi osserva rispettosamente la cultura «altra», serve a mantenere, nel modo più impietoso, il dominio su chi meno sa e meno «deve» sapere, su chi deve rimanere al posto assegnatogli, di subordinazione e di strumento; su chi, soprattutto, affidandosi ad un presunto «proprio potere» - quello di essere, sia pure nel «male», in comunicazione con l’al-di-là - garantisce l’esistenza stessa di questo al-di-là (esistenza indispensabile per far vivere una religione, qualsiasi religione).
Non è vero che la «cultura contadina» produca, o abbia prodotto, diavoli, fatture, superstizioni, streghe, possedute; non è vero, cioè, che esista una cultura contadina chi viene dal basso (chiedo scusa: dal «popolo»). Il modello culturale è sempre alimentato da un insieme di valori, di idee, che certamente interagisce anche con l’esperienza quotidiana di tutta la popolazione, ma che è prima di tutto elaborato da chi detiene il potere ed è in grado di istituzionalizzarlo. La teologia cattolica ha consapevolmente teorizzato l'esistenza del diavolo, la funzione mediatrice di Eva-Maria, responsabile dell’ingresso nel mondo della morte e dell’uomo-Salvatore, ma ha sempre tenuto le donne nella condizione di ignorare qualsiasi «sapere» teologico, lasciandole quindi in preda delle conseguenze psicologiche e, ai tempi del rogo, anche giuridiche di una teoria che esse non erano minimamente in grado né di criticare né di respingere. (Ricordo, a quanti non lo sapessero, che è solo in questi ultimi anni, dal Concilio Vaticano II in poi, che le donne sono state ammesse, sia pure con molta riluttanza, a studiare teologia).
La «possessione diabolica» non proviene né dalla cultura contadina né da misteriosi «poteri» o «peccati» del sesso femminile. Essa è presente sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, anche se priva di quella ossessiva caratterizzazione femminile che viceversa ha assunto nella storia della Chiesa Cattolica.
Il fatto che la Chiesa finga di ignorar tutto questo, che consideri il fenomeno come frutto di ignoranza e di superstizione senza peraltro far nulla, né per cambiare la teoria, né tantomeno per impedirne lo sfruttamento - spirituale ed economico - sarebbe già gravissimo (ricordiamo che i preti esorcisti esistono, e sono a tutt’oggi debitamente autorizzati dai loro vescovi). Ma più grave è il fatto che gli studiosi, laici o meno, guardino a queste manifestazioni con occhio distaccato e compunto, dall’alto della loro «coscienza antropologica», rispettosa di tutto quello che viene dal «popolo», con l’apprezzabile scopo di non «colonizzare», non distruggere le «culture». Questo è certo un problema scientifico e morale di grande importanza: ma non si può invocare la «coscienza antropologica» quando ci si trova davanti ad un falso storico evidente. E sono le donne — la parte più oppressa dell’umanità, proprio attraverso lo strumento dell’ ignoranza (il sesso femminile è a tutt’oggi il meno alfabetizzato nel mondo) — che vengono così chiamate a soffrire nel loro corpo, ancora una volta, la paura che gli uomini hanno dell’al-di-là.
Mi rendo conto che molto difficilmente gli antropologi «maschi» abbandoneranno il loro atteggiamento di irreprensibile e benevolo distacco di fronte ai fenomeni che la cosiddetta «etno-storia» non solo inventaria diligentemente, ma si preoccupa anche di salvaguardare come «patrimonio culturale». Pure, l’antropologia non è, o non è soltanto, la scienza della descrizione delle culture «altre»; è soprattutto un modo per ripensare la propria storia, perché soltanto così è possibile evitare di collocare «l’altro» in un vuoto psicologico e culturale.
Non è lecito dimenticare che la «nostra» storia è anche la storia della teologia cattolica, in cui gli uomini della Chiesa hanno proiettato il loro modo di guardare al sesso femminile, caricandolo di tutti i loro terrori, di tutti i loro fantasmi. Chi oggi si vanta di non interferire nei rituali, le devozioni, le credenze «popolari», di fatto contribuisce all’oppressione dei più deboli, lasciando loro il compito di far sopravvivere, senza che sè ne accorgano, proprio le strutture più radicate della loro oppressione.


“la Repubblica”, 6 giugno 1980

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