Sì c'è del sacro nella cicoria, specialmente se selvatica, erba che è diventata l'emblema della mia famiglia, cibo che il mio papà tanto amava e a cui non rinuncerei per nessuna ragione. (S.L.L.)
Un giovane uomo, faccia
normanna, capello biondo federiciano, sguardo alto appena un po’
lavorato della dolente coscienza ereditata dalla messapica gens
che tutto resta anche quando tutto trascorre, da quello che ne so io
deve avere almeno due lauree, una brancata di master, tre lingue
sulla punta della lingua, vasta conoscenza personale dell’Europa; è
quest’uomo che ha organizzato il mio viaggio pasquale nelle Puglie,
mi ha segnato le strade, mi ha messo a posto la bici, si è
sfacchinato i bagagli, trovato da mangiare e da dormire, indicato da
vedere e da sentire, è quest’uomo che nel darmi l’addio mi ha
regalato una cassetta di cicorie. Cicorie salentine.
A casa le ho lessate, le
ho saltate, le ho mangiate con il pane che ho trovato in un forno
aperto nella notte in un posto messapico che non saprei, ci ho bevuto
del Salice che ho comprato sfuso in un bar lì vicino e mi son
portato via dentro la borraccia della bici; ho fatto tutto questo
sapendo bene che era come aver celebrato. C’è del sacro nella
cicoria, c’è stato del sacro nell’avermela offerta, c’è nella
sua stessa natura di erba da sempre domestica e sempre selvatica.
Pianta della fecondità della miseria, ha nutrito talmente tanti
popoli che non si sa nemmeno più cosa voglia dire quel suo nome
cicoria, pianta dei latifondi in abbandono e degli orti
cassintegrati, così amara che non può fare che bene, così
profumata che non può che essere un veleno. Laggiù la mangiano con
le fave, il legume che è solo un passo più in su del dannato
lupino, io senza nient’altro in più del gesto di chi me l’ha
offerta.
“Il Sole 24 Ore - domenica”, 23 aprile 2017
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