«Fate
figli, molti figli: il numero è potenza »: dato che questa era la
mansione che il regime fascista affidava alle donne, di partorire
soldati, si capisce come, nel cinema di quegli anni, i «tipi»
femminili dominanti fossero pochini: l'ingenua, cioè la fidanzata
destinata al talamo per la intensa riproduzione della specie; la
grande peccatrice, contraltare del matrimonio sacro e indissolubile;
la sana massaia meglio se contadina, garanzia della sanità della
stirpe; la ricca ereditiera offerta ai sogni di evasione da una
penosa realtà. A Venezia, al primo festival del 1932, mentre la
Germania (prenazista) presentava un drammatico film sulla condizione
femminile come Ragazze in uniforme,
l’Italia, già fascista, applaudiva per Gli uomini che
mascalzoni, il film restato
invero graditissimo dato che, per quanto frivolmente amabile e nulla
più, era pur sempre meglio delle pellicole di propaganda e d’eroismo
a comando che sempre più dilagavano sugli schermi. Un filmetto dove
l’eroina era, appunto, la commessa graziosa punto e basta,
affascinata da un bel giovanotto che s’era spacciato per riccone,
senza orizzonti, senza ambiente, senza storia.
L’ingenua
venne da allora condita in tutte le salse, era Scampolo
da una commedia già affermatasi a teatro, o Teresa
Venerdì, ma restava comunque e
sempre la ragazzina talvolta un po’ sciocchina talvolta furbetta,
che riusciva infine a pilotare all’altare il farfallone; cosi,
negli anni de L'angelo azzurro
(la straordinaria figura femminile di Lola Lola, interpretata da
Marlene Dietrich), di Estasi
(dove la femminilità non era certo soltanto quel primo nudo
integrale della storia del cinema), de La passione di
Giovanna d’Arco di Dreyer, o,
sia pure, anche di Accadde una notte, con quel clamoroso amore
extramatrimoniale fra Claudette Colbert e Clark Gable e magari di Via
col vento (l’indimenticabile
ribelle Rossella O’ Hara) nella nostra neonata Cinecittà si
confezionavano filmetti come Ore 9 lezione di chimica,
tante ragazzine belline e sciocche, impegnate a imbrogliare i
professori e a catturarsi un fidanzato.
Quello
stesso fascismo che aveva drasticamente limitato l’accesso delle
donne agli studi in particolare quelli superiori, che del resto aveva
loro interdetto i pubblici impieghi e che — quando lavoravano —
pagava loro salari e stipendi dimezzati rispetto a quelli dei maschi,
amava idealizzarle, nel cinema come studentesse benestanti,
impiegatine dalla permanente sempre in ordine, contadinelle dai
grandi cappelli di paglia con il mazzolin dei fiori. Ma, consapevole
che oltre alla preparazione verginale al parto multiplo l’amore era
anche sesso e peccato, il cinema fascista parallelamente sfornava
pellicole dove la donna era presentata come torta per consumi di
lusso, budino alla crema per i riposi del guerriero: Luisa Ferida,
Clara Calamai, chi ancora ?, erano le prosperose peccatrici di
polpettoni storici che consentivano (riprendendo un filone
magniloquente dell’Italia prebellica) di esibire orge, letti
sfatti, violenze carnali.
Tuttavia,
l’epoca restò caratterizzata come quella «dei telefoni bianchi»:
alla ammirazione delle platee, la Cinecittà mussoliniana proponeva
con ostinata frequenza, dive dai movimenti fataleggianti che,
all’interno di lussuosi appartamenti, facevano uso intenso di quel
mezzo di comunicazione che, appunto bianco, appariva fascinoso ed
elegantissimo; si trattava di solito di commediole del tutto
insignificanti (nessuno ne ricorda neppure i titoli) ma il cui fine
evidente era quello di garantire alle donne — restituite alle
mansioni domestiche per far posto alla crescente massa dei
disoccupati maschili — che l’angelo del focolare poteva anche
essere bello, ricco e indaffaratissimo in faccende di cuore. Ma
peggio andò quando il già tanto lodato angelo dovette esser
riportato alla svelta in fabbrica, perché i maschi venivano spediti
alla conquista del mondo: nel cinema fascista di eroismo e di guerra,
alla donna, ovviamente, non restava molto posto, Scipione
l’Africano aveva troppo da
fare a conquistare la «quarta sponda», per perdere tempo con le
femminelle. Nei meno infami film del tempo, comunque, come Un
pilota ritorna o Uomini
sul fondo, alle donne era
consentito far le crocerossine, le madri dei caduti e le spose in
fedele attesa. Per quanti disperati sforzi di memoria si possano
fare, non una figura femminile del tempo può essere ritrovata nel
ricordo; avviata a diventare una caserma, l’Italia non aveva posto
per le donne.
Se
non nei sogni «romantici»: ecco infatti un altro filone del tempo,
quello de La romantica avventura,
abiti bianchi e violini, baci lievi sotto grandi alberi e happy end.
In realtà, tagliata fuori dai problemi reali del Paese, e privata
d’ogni libertà, quella cinematografia era insieme falsa ed
impotente; erano gli anni, nel mondo, di film come Alessander
Newskii, Ombre rosse,
Tempi moderni, Alba
tragica, e da noi per sfuggire a
film come L'assedio dell’Alcazar,
non restavano che gli idilli canori tipo Fuga a due voci:
e ancora e sempre la donna come delicata sciocchina, ricca borghese,
prostituta di lusso.
Poi,
di colpo, una figura di donna vera, vibrante, appassionata, in un
ambiente allucinante, disperata e tragica, la donna di Ossessione,
la prima artigliata del neorealismo contro l’ipocrisia, il
conformismo e la falsità dell’orpello del regime. Il fascismo
entrava in agonia, di lì a poco proprio una figura di donna — in
Roma città aperta —
l’indimenticabile Magnani, sarebbe diventata il simbolo dell’amore
e della libertà.
“Noi
donne”, 23 aprile 1974
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