Il programma della
«Giovine Italia» fu elaborato e diffuso da Mazzini nell’estate
del 1831, dopo il fallimento dei moti italiani e dopo aver inviato
una lettera senza esito a Carlo Alberto, in cui invitava il nuovo re
sabaudo a mettersi alla testa del movimento di riscossa nazionale
italiano: per tutta risposta il sovrano del Regno di Sardegna emanò
l’ordine d’arrestare Mazzini e, con ciò, pose fine a ogni
speranza riposta da questi nello stato piemontese.
L'istruzione generale per
gli affratellati della Giovine Italia raccoglieva i principi
fondamentali e gli indirizzi programmatici del pensiero di Mazzini
sulla base dei quali egli svilupperà tutta la sua attività
politica. Il punto di partenza risiedeva nella critica alle «ormai
superate» pratiche carbonare: «Vi è un periodo nella vita dei
popoli, come in quella degli individui, nella quale le nazioni
s’affacciano alla libertà, come le anime giovani all’amore: per
istinto - per bisogno indefinito e segreto - ma senza conoscenza
intima della cosa bramata, senza studio dei mezzi, senza
determinazione irrevocabile di volontà, senza fede. Allora la
libertà è passione di pochi privilegiati a sentire e soffrire per
tutta una generazione. (...) Allora le rivoluzioni si tentano
artificialmente con le congiure: gli uomini liberi si raccolgono a
metodi d’intelligenza misteriosa, s’ordinano a fratellanze
segrete, costituiscono setta educatrice e procedono tortuosi. Però
che le moltitudini durano inerti e i più vivono astiosi al presente
ma spensierati nell’avvenire - e se taluno muove guerra al tempo, e
tenta di rivelarlo a milioni, i milioni lo ammirano onesto, ma lo
scherniscono sognatore». Nonostante i fallimenti del passato,
Mazzini riteneva che fossero maturi i tempi per un nuovo metodo
rivoluzionario che coinvolgesse il popolo, una convinzione che traeva
dall’osservazione storica e dalla fede nel progresso: «Quando un
popolo, diviso in mille frazioni, guasto dalle abitudini del
servaggio, ricinto di spie, oppresso dalle baionette straniere,
divorato per secoli dall’ire municipali, stretto tra la cieca forza
del principato e le insidie sacerdotali, senza insegnamento, senza
stampa, senz’armi (...) trova pur modo di sorgere tre volte in
dieci anni (....), quando in dieci giorni la bandiera italiana
sventola sopra venti città e gli uomini della libertà invocano
confidenti i comizi popolari per concertare opportune riforme (...)
allora compiangete quel popolo, che le circostanze condannano ancora
all’inerzia: ma non lo calunniate: v’è una scintilla di vita in
quel popolo, che un dì o l’altro porrà moto a un incendio».
Evidenti i riferimenti ai moti italiani del decennio 1821-31: per
Mazzini esistevano tutte le premesse e le condizioni per una
rivoluzione nazionale, previa una strategia e un metodo politico
adeguati per coinvolgere il popolo e rendere concreta quella che fino
ad allora era rimasta solamente una potenzialità mai pienamente
espressa. Mazzini non dubitava nemmeno per un momento che il destino
dell’Italia fosse quello di essere una nazione. Una convinzione che
gli derivava sia da una visione romantica della storia (la tradizione
culturale italiana e la sua «missione» universalistica), sia dalla
sua fede nel progresso che affidava agli uomini il compito di
realizzare la «missione» del miglioramento continuo della
condizione dell’umanità. Questa fede nel progresso, nella
realizzazione di una missione storica - personificata dalla
«gioventù» in quanto futuro dell’umanità - giustificava il
dovere della rivoluzione e ne faceva il mezzo indispensabile per il
cambiamento.
Il luglio francese
insegnava anche questo: «Il momento sorse, la gioventù lo afferrò.
Il cannone dell’Hotel de Ville tuonò la chiamata. La gioventù si
levò come un sol uomo: la gioventù vinse. Cortigiani, baionette,
trono, tutto rovinò davanti all’impeto d’un princìpio. Il sole
del 27 aveva diffusa la luce sopra ogni cosa: il sole del 29 non
salutò che una bandiera: la bandiera del secolo».
Dentro questa filosofia
della storia - piena di evocazioni religiose - Mazzini collocava il
senso dell’esistenza e del programma della «Giovine Italia», lo
strumento della storia e del progresso nella Penisola: «Noi lo
dichiariamo solennemente: per giovine Italia noi non intendiamo che
un sistema, voluto dal secolo: quando noi combattiamo la vecchia non
intendiamo combattere che un sistema, rifiutato dal secolo!». Lo
sviluppo storico generale, per Mazzini, giustificava la sua
impostazione politica e la nuova organizzazione, la cui bandiera
«sarà il tricolore con iscritte da un lato le tre parole d’ordine
universali, Libertà, Eguaglianza, Umanità, e, dall’altro, le
parole d’ordine italiane: Indipendenza, Unità»; un’organizzazione
che sarà «la fratellanza degli italiani credenti in una legge di
progresso e dovere», che avrà uno scopo preciso, «restituire
l’Italia in Nazione di liberi e uguali, Una, Indipendente e
Sovrana».
La rivoluzione di Mazzini
aveva, quindi, un senso nazionale: ma far dell’Italia una nazione
significava concretizzare in un’istituzione statale la tendenza
storica all’unità del paese: «Senza unità di credenza e di patto
sociale, senza unità di legislazione politica, civile e penale,
senza unità d’educazione e di rappresentanza, non v’è nazione.
Senza unità - continuava Mazzini, criticando il federalismo - non
c’è forza e l’Italia, circondata da nazioni unitarie e potenti e
gelose, ha bisogno innanzitutto di essere forte (...) Il federalismo,
condannandola all’impotenza della Svizzera, la porrebbe sotto
l’influenza necessaria d’una o d’altra delle nazioni vicine
(... ) il federalismo, smembrando in molte piccole sfere la grande
sfera nazionale, cederebbe il campo alle piccole ambizioni e
diverrebbe sorgente d’aristocrazia». Assieme all’unità, la
repubblica è l’altro obiettivo e principio guida dell’azione
della «Giovine Italia», «perché teoricamente, tutti gli uomini
d’una nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’umanità,
a essere liberi, uguali, fratelli; e l’istituzione repubblicana è
la sola che assicuri questo avvenire, perché, la sovranità risiede
essenzialmente nella nazione, sola interprete progressiva e continua
della legge morale suprema». Inoltre anche la repubblica era
iscritta nel percorso storico: «La serie progressiva dei mutamenti
europei guida inevitabilmente la società allo stabilimento del
principio repubblicano, e l’inaugurazione del principio monarchico
in Italia trascinerebbe necessariamente la necessità d’un’altra
rivoluzione tra non molti anni. (... ) Perché la tradizione italiana
è tutta repubblicana: repubblicane le grandi memorie (... ) e la
monarchia s’introdusse quando cominciava la nostra rovina e la
consumò: fu serva dello straniero, nemica del popolo e dell’unità
nazionale».
Ma come raggiungere
l’unità e la repubblica? Mazzini «rompeva» con i precedenti moti
liberali, indicando un metodo fondato sull’educazione e
sull’insurrezione: «Questi due mezzi devono usarsi concordemente e
armonizzarsi. L’educazione, con gli scritti, con l’esempio, colla
parola, deve conchiudere sempre alla necessità e alla predicazione
dell’insurrezione; l’insurrezione, quando potrà realizzarsi,
dovrà farsi in modo che ne risulti un principio d’educazione
nazionale. L’educazione necessariamente segreta in Italia, è
pubblica fuori d’Italia. I membri della Giovine Italia devono
contribuire a raccogliere e alimentare un fondo per le spese di
stampa e diffusione. La missione degli esuli italiani è quella di
costituire l’apostolato. L’intelligenza indispensabile ai
preparativi dell’insurrezione è, dentro e fuori, segreta».
Anticipando alcune delle
caratteristiche dei moderni partiti politici Mazzini insisteva molto
sulle modalità d’azione degli affiliati alla sua associazione e
nell’Istruzione generale per gli affratellati della Giovine Italia
ne indicava i quattro caratteri generali. Sarà un’insurrezione a
carattere popolare perché «destinata a formare un Popolo, agirà in
nome del Popolo e s’appoggerà sul Popolo negletto finora, mentre
le insurrezioni passate non s’appoggiarono che sulle forze d’una
classe sola, non mai sulle forze dell’intera nazione». Dovrà poi
essere un’insurrezione prettamente italiana e non ispirata
dall’estero: «L’Italia può emanciparsi colle proprie forze»
perché «qualunque insurrezione s’appoggi sull’estero dipende
dai casi dell’estero e non ha mai certezza di vincere». In terzo
luogo avrà due distinti momenti, prima con l’instaurazione di una
dittatura provvisoria e poi con la creazione di un potere popolare
fondato sull’elezione di un’Assemblea costituente: «La Giovine
Italia distingue lo stadio dell’insurrezione dalla rivoluzione. La
rivoluzione comincerà quando l’insurrezione avrà vinto. Lo stadio
dell’insurrezione, cioè il periodo che si estenderà
dall’iniziativa alla liberazione di tutto il territorio italiano
continentale, dev’essere governato da un’autorità provvisoria,
dittatoriale, concentrata in un piccolo numero d’uomini. Libero il
territorio, tutti i poteri devono sparire davanti al Concilio
Nazionale, unica sorgente d’autorità nello Stato». Infine dovrà
essere preparata e iniziata dalla guerriglia: «La guerra nazionale
d’insurrezione per bande è la guerra di tutte le nazioni che
s’emancipano da un conquistatore straniero. Essa supplisce alla
mancanza, inevitabile sui princìpi delle insurrezioni, degli
eserciti regolari. (... ) La Giovine Italia prepara dunque gli
elementi a una guerra per bande e la provocherà, appena scoppiata
l’insurrezione. L’esercito regolare, raccolto e ordinato con
sollecitudine, compirà l’opera preparata dalla guerra
d’insurrezione».
Per unificare il popolo a
sostegno della rivoluzione Mazzini non credeva - a differenza di
Buonarrotti - che fossero necessari contenuti sociali e di carattere
comunistico: per muovere il popolo egli riteneva bastasse «esporgli
l’utile materiale che deve indurlo all’azione», cioè la
propaganda per convincerlo a muoversi: «Là, nelle mille angherie,
nelle vessazioni infinite, nell’insulto perenne d’un insolente
potere, d’una esosa aristocrazia (...) di là avrete a trarre quel
grido che può far sorgere. Gridate all’orecchio del popolo: la
tassa prediale v’assorbe la sesta parte o la quinta dell’entrata,
le gabelle imposte alle polveri, ai tabacchi, allo zucchero, ad altri
generi coloniali, agguagliano la metà del valore; il prezzo del
sale, genere di prima necessità, v’è rincarito di tanto che né
potete distribuirne al bestiame, né potete usarne per voi medesimi;
la necessità d’adoperare per le menome contrattazioni la carta
soggetta a bollo v’è sorgente continua di spesa». Una rivoluzione
priva di ogni carattere classista, perché l’idea stessa di
repubblica dovrebbe bastare per attivare le masse, perché il governo
della repubblica si baserà sulla «volontà generale», eliminando
arbìtri e privilegi. Una rivoluzione, cioè, nazionale e borghese.
Da La Conquista, II
fascicolo: “Rivoluzioni”, speciale
de “il manifesto” per i 150 anni dell'Unità d'Italia a cura di
Gabriele Polo, 2011
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