Togliatti (primo da sinistra) con altri dirigenti dell'IC. Il quarto da sinistra è Dimitrov |
Per almeno due
generazioni di comunisti, l'Hotel Lux fu un luogo mitico, avvolto in
un clima di avventure ed eroismo, per almeno altre due fu sinonimo di
orrori e persecuzioni. Era, l'Hotel Lux, una sorta di casa albergo di
Via Gorki, a Mosca, dove vissero, sotto falso nome, dal 1921 al 1940
i personaggi più illustri del Gotha comunista: da Ho Chi Min a Tito,
da Dolores Ibarruri a Ciu En lai, da Dimitrov a Rakosi. Erano tempi
durissimi per i comunisti di tutto il mondo. La rivoluzione, cui
l'assalto al Palazzo d'Inverno, aveva dato l'avvio, non si allargava,
come qualcuno aveva sperato, agli altri paesi d'Europa e agli altri
continenti. I dirigenti dunque delle varie organizzazioni comuniste
d'Europa, d'Asia, del Sud America lungi dal prendere il potere
venivano cacciati nell'illegalità e perseguitati con ferocia dai
regimi di destra dei rispettivi paesi. Una parte entrava
nell'illegalità, altri venivano salvati ed arrivavano quindi
nell'unico luogo sicuro possibile: a Mosca, Terra Promessa. Nel
linguaggio dei comunisti di tutto il mondo per lungo tempo Mosca fu
indicata, affettuosamente e semplicemente, come la Casa o la Casa
Madre. Lì venivano accolti e sistemati: una parte di questi emigrati
andava a lavorare nelle fabbriche; i più autorevoli, quelli di cui
ricordiamo i nomi e le tracce, venivano assegnati agli organismi che
a Mosca avevano sede, il più importante dei quali era
l'Internazionale. (C' erano poi il Soccorso Rosso, l'Internazionale
Giovanile e così via). Questi venivano sistemati nelle stanze del
Lux, con le loro mogli, figli, valige e ricordi. Tra questi
misteriosi inquilini del Lux ci fu anche Togliatti, che, arrivato a
Mosca a soli 33 anni, nel 1926, ne ripartirà definitivamente, dopo
alcuni periodi passati in Francia o in Spagna, solo nel 1944, per
tornare a dirigere il suo partito in Italia.
Questo libro di Gianni
Corbi (Togliatti a Mosca, Storia di un legame di ferro,
Rizzoli, pagg. 312, lire 34.000) ricostruisce con grande attenzione,
ricchezza documentaria e finezza politica, l'attività di Togliatti
in quegli anni, gettando una luce drammatica sulla sua partecipazione
alle oblique vicende dell'Internazionale Comunista e sulla sua
corresponsabilità con le decisioni più cruente di Stalin, dalla
liquidazione del partito comunista polacco alla persecuzione di tanti
comunisti ed emigrati italiani in URSS. Togliatti è da pochi mesi a
Mosca quando gli giunge, nell'ottobre, una lettera di Gramsci, una
lettera decisiva per quello che riguarda i rapporti tra i due e il
destino stesso del partito comunista italiano. La lettera è nota da
tempo, ma vale la pena di ricordarne l'essenziale. Ai dirigenti
sovietici, impegnati in una spietata battaglia con l'opposizione,
Gramsci scrive invitando all'equilibrio ed alla moderazione:
Ziniovev, Trotzkij, Kamenev certamente, sbagliano, ma vogliamo essere
sicuri che la maggioranza del C.C. dell'URSS, non intenda stravincere
nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive. La lettera
di Gramsci era tanto più importante in quanto non si trattava di un
documento personale, ma di una presa di posizione elaborata
dall'Ufficio Politico del Pci, che Togliatti, rappresentante dello
stesso partito presso il Comintern, avrebbe dovuto presentare e
illustrare. Ma le richieste di Gramsci e il tono con cui la lettera
era formulata, entravano in rotta di collisione con il parere e la
volontà di Stalin, che, altro che stravincere!, intendeva liquidare
non solo politicamente ma anche fisicamente i suoi avversari.
Togliatti dunque decide di non presentare ai suoi destinatari la
lettera di Gramsci, e la consegna invece a Bucharin, dell'Esecutivo
dell'Internazionale e che deciderà di mandare un suo rappresentante
in Italia, per discutere con i dirigenti di quel partito ed impedire
il loro scivolamento nel campo dei trotzkisti.
Bisognerebbe aver vissuto
nel clima infuocato di quelle settimane commenta Corbi per poter dare
un giudizio equanime dell' atteggiamento di Togliatti. C'è chi
sostiene che fu da quel momento che il capo del Pci cominciò ad
assumere i modi e gli atteggiamenti, i riflessi condizionati dei
grandi leader dell'Internazionale Comunista. Ma quel processo che
portò Togliatti a calarsi e quasi a mimetizzarsi nella realpolitik
sovietica fu molto più lungo, tortuoso e probabilmente sofferto di
quanto molti vogliono far credere. C'è in questo passaggio la chiave
interpretativa di tutto il lavoro di Corbi, con l' esplicito rifiuto
di ogni semplificazione e una attenzione estrema ai vari passaggi che
condurranno alla fine Togliatti alla totale corresponsabilità con le
scelte di Stalin. È una storia di trappole, di agguati, di scontri,
di accuse roventi e di umilianti autocritiche, di polemiche, la cui
posta era la vita, la propria e quella dei rispettivi partiti.
Vedremo così un Togliatti denunciare con molto vigore e coraggio al
VI Congresso del Comintern la nefasta equivalenza tra fascismo e
socialdemocrazia, e poi, solo un anno dopo riallinearsi prudentemente
sulle tesi prima contestate, e infine, preparare tra il 1934 e il
1935 quel VII Congresso dell' Internazionale che ne segnerà la
svolta in senso democratico e antifascista, aprendo la strada alla
politica dei Fronti Popolari. Nessun dubbio che a questa scelta
Togliatti porterà un contributo di elaborazione determinante. (La
nostra ambasciata di Mosca segnala: Siamo di fronte ad una nuova
strategia che dimostra la speciale pericolosità della nuova tattica
comunista dei fronti unici...). A questa apertura che giustamente i
nostri diplomatici definiscono un subdolo riformismo, corrisponde
però sul piano interno un inasprirsi della persecuzione non solo
contro i residui oppositori, o meglio ex oppositori di Stalin, ma
contro iscritti e dirigenti del partito, esponenti dell' apparato
industriale sovietico e del suo esercito, una sorta di gigantesca
impazzita mattanza alla quale Togliatti darà, ahimè!, il suo
contributo propagandistico.
Fino a che punto
Togliatti è convinto della verità delle confessioni e delle
testimonianze? Ecco un interrogativo al quale è forse impossibile
trovare una risposta. E ci conferma in questo nostro dubbio il fatto
che anche un osservatore disincantato come l'ambasciatore degli Stati
Uniti a Mosca abbia potuto esser convinto della validità delle
accuse rivolte a Bucharin e Tukaceski. Nella orrenda fornace
staliniana scomparvero dirigenti autorevolissimi di tutti i partiti
comunisti, e decine di modesti comunisti italiani che si erano
rifugiati a Mosca per sfuggire al regime di Mussolini. Quanti di
questi innocenti si rivolsero, per un aiuto, a Togliatti? Ma poteva
Togliatti rispondere? La questione è aperta risponde Corbi. Chi
visse quelle terribili esperienze o coloro che hanno cercato di
ricostruire le circostanze e i nessi storici che caratterizzarono
quel periodo, sono inclini a ritenere che quelle invocazioni non
potevano ragionevolmente avere una risposta. E che Togliatti, anche
se lo avesse voluto, avrebbe potuto fare ben poco. L' unico risultato
certo, aggiungono, sarebbe stato quello di coinvolgere lo stesso
Togliatti in quell' infernale meccanismo e, con lui, il Partito
Comunista italiano.
Alla fine, questo sembra
essere anche il giudizio di Corbi. Ma la ricerca si segnala non solo
per la ricostruzione delle vicende del leader del Pci quanto
soprattutto per la rievocazione complessiva del clima dell' epoca,
per la quale si avvale delle relazioni finora inedite della nostra
Ambasciata di Mosca, che seguiva con grande attenzione le vicende dei
nostri emigrati in URSS, da coloro, i più noti, che avevano
incarichi dirigenti nei vari organismi internazionali a quanti, ed
erano centinaia, lavoravano come operai e contadini nelle fabbriche e
nei kolkos: militanti che avevano abbandonato i loro paesi per
sfuggire dalle persecuzioni fasciste e che si troveranno tragicamente
coinvolti, vittime inconsapevoli e innocenti, nelle repressioni
staliniane. Si vedano, a questo proposito, i verbali di alcuni
interrogatori, e in particolare quelli degli operai che lavoravano
nella fabbrica, non lontana da Mosca, diretta da Umberto Nobile, lo
sfortunato trasvolatore del Polo Nord. Molti di questi, accusati di
avere avuto rapporti con bordighiani e con troskisti, spariranno
nella notte staliniana. Restano nella memoria alcuni nomi, o più che
questi, alcune immagini come quella di un bolognese, un certo
Bertoni, molto allegro, quantunque tra carceri ed esilio, divenuto
tubercoloso. Rimpiangeva zamponi, tortellini, la dovizia gastronomica
dell'Emilia.... Anche lui, come centinaia di altri comunisti
italiani, spariti nel nulla.
“la Repubblica”,19
giugno 1991
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