Immanuel Kant |
Sulle orme della Grande
trasformazione di Karl Polanyi (1944) questa raccolta
(Feltrinelli, 2017) propone di chiamare il nostro tempo una Grande
regressione. Pubblicato in tedesco, il volume esce in
contemporanea in tutte le lingue europee. Porta i segni del senso di
sconforto da cui è stato partorito il progetto di chiedere a
quindici sociologi una riflessione sulle conseguenze degli attentati
terroristici di Parigi nell’autunno 2015.
Nonostante la
similitudine con il titolo dell’opera di Polanyi, questo libro
agile e di larga lettura presenta una sua identità specifica, a
tratti emotiva, tra catastrofismo e volontarismo. L’idea che lo
ispira è il declino dell’occidente, «decisamente regredito,
lasciandosi alle spalle una serie di standard di vita faticosamente
conquistati e ritenuti ormai consolidati». Ad essere regredito è il
mondo dei valori del cosmopolitismo e dell’illuminismo, e
dell’apertura della mente e delle frontiere che lo caratterizzava.
Una cultura nobile che ci ha guidato fino a quando il mondo era
diviso in zone di influenza (la Guerra fredda) e la sovranità aveva
il potere di fare scelte economiche e sociali e pattugliare le
frontiere.
Sembra che i principi
kantiani - i nostri principi – avessero forza morale quando non
ispiravano la politica, quando c’erano le frontiere ed era
possibile distinguere tra “immigrazione” e “migrazione”
scrive Zygmunt Bauman. Non oggi, che gli Stati non possono far fronte
alle “ondate” di disperati della terra. Il “Terzo Mondo”,
nelle parole di Umberto Eco (uno degli ispiratori ideali del volume
insieme a Ralf Dahrendorf e Richard Rorty), «non bussa ma entra,
anche se non siamo d’accordo». Secondo Bruno Latour, il sentimento
che nasce è dunque questo: «Padroni a casa propria! Indietro
tutta!». Il problema è che «non esiste più una “casa propria”,
per nessuno. Via di qua! Dobbiamo tutti muoverci. Perché? Per il
fatto che non c’è un pianeta in grado di realizzare i sogni della
globalizzazione» (p. 106).
La difficoltà sta nel
fatto che non possiamo essere cosmopoliti per scelta: dobbiamo
esserlo, punto. E questo è difficile per chi non è pietista come
era Kant. Quando essere tolleranti diventa un lavoro, i principi
illuministici scricchiolano. Lo aveva capito Rorty che trent’anni
fa spiegava la difficoltà di essere tolleranti quando i diversi
vivono sotto casa perché richiede un lavoro faticoso di
autocontrollo. E quindi il liberale, commentava Rorty, non vede l’ora
di rientrare in casa e rifugiarsi nel privato, dove può dire quel
che pensa e l’arte del “trattare” e del “compromettere” non
è così necessaria.
Il mondo che descrive
questo volume è un luogo di fatica. E la fatica è, sembra di
capire, proporzionale alla mescolanza delle razze e, soprattutto,
alla loro proporzione. Ivan Krastev si serve della categoria di
“minaccia normativa” di Karen Stenner per spiegare questo
fenomeno: la «sensazione che l’integrità dell’ordine morale sia
a rischio e che il “noi” percepito si stia disintegrando» (p.
98). Il nesso tra “noi” bianchi e il mondo meno bianco che ci
circonda non è celabile. Scrive ancora Bauhman: nel 1990, la città
di New York «contava fra la sua popolazione il 43%di “bianchi”,
il 29% di “neri”, il 21% di “ispanici” e il 7% di “asiatici”.
Vent’anni dopo, nel 2010, i “bianchi” rappresentavano solo il
33% ed erano a un passo dal diventare una minoranza» (p. 34). Dunque
è lo sbilanciamento nel rapporto tra i bianchi e gli altri il
problema della fatica del vivere immersi nella diversità?
La politica non è in
miglior salute della società se è vero che, come scrive Wolgang
Streeck, la distanza tra “gente comune” e “persone colte” sta
rompendo la cittadinanza democratica. Non tutti i capitoli sono
unanimi nella diagnosi e ugualmente condivisibili. Donatella della
Porta ci racconta con cura i tentativi di aggiustare le istituzioni
democratiche sotto la spinta della crisi del debito e dell’erosione
dei diritti sociali. A partire dai budget partecipativi fino
all’immaginazione istituzionale degli Islandesi, che con una
sinergia di procedure e metodi (elezione, referendum, sorteggio e
consultazione via web) hanno scritto una nuova costituzione (che il
Parlamento ha poi bocciata ma che a giudizio della Commissione
europea era ben fatta). Nella sua “lettera” ideale a Juncker,
David Van Reybrouck osserva giustamente che se la democrazia dà
cattiva prova di sé è a causa da un lato della scarsa volontà di
“volere” l’Europa politica e dall’altro dell’abuso dello
strumento referendario da parte di leader o poco saggi o arroganti.
Regressione della
democrazia verso che cosa? Tutti i saggi menzionano il declino della
Ue, il populismo, l’egemonia neo-liberale, l’erosione della
classe media, l’istigazione delle passioni peggiori da parte di
media, vecchi e nuovi, e di una politica che è sempre più una
questione di “audience”. Arjun Appadurai non ha dubbi che si vada
verso l’autoritarismo – che sia di Putin, Erdogan e Trump poco
cambia.
Ma le istituzioni e le
procedure sono irrilevanti? La Turchia e gli Stati Uniti non sono la
stessa cosa ed è problematico sostenere che chi ha votato per Trump
ha votato “contro la democrazia” (p. 23), la quale non vale solo
quando ci piacciono le sue scelte e “vota” sempre per se stessa
fino a quando può tornare a votare regolarmente. L’arte della
distinzione ci dovrebbe aiutare a non mettere in uno stesso fascio
democrazia, populismo e autoritarismo. Certo, ha ragione César
Rendueles ad auspicare che le democrazie si occupino della cultura
etica dei cittadini (un problema vecchio quanto le democrazie) ma è
riduttivo ritenere che le procedure e le regole del gioco siano solo
questioni formali.
E se invece di pensare
all’Occidente come “uno” ne vedessimo le differenze? Di qui
procede Slavoj Žižek per formulare, alla fine, la questione del
“che fare?”. E da leninista di vecchia data impermeabile a
catastrofismi e fatalismi, si rivolge alla ragione strategica e alla
volontà: cercare di unire «i due piani: l’universalità contro il
senso di appartenenza patriottico e il capitalismo contro
l’anticapitalismo di sinistra» senza ripercorrere le strade
battute (che sono o sconfitte o indesiderabili): «dobbiamo spostare
la nostra attenzione dal Grande lupo cattivo populista al vero
problema: la debolezza della posizione moderata “razionale”» (p.
230).
La soluzione “non
moderata” è la seguente: dare gambe giuridiche e politiche al
cosmopolitismo di Kant. Insomma, prendere sul serio Trump e portare
alle conseguenze radicali il fatto che gli Stati-nazioni non
funzionano più per cui l’anti-destra populista dovrebbe avere il
coraggio di proporre «un progetto di nuovi e diversi accordi
internazionali: accordi che impongano il controllo delle banche,
accordi sugli standard ecologici, sui diritti dei lavoratori, sul
servizio sanitario, sulla protezione delle minoranze sessuali ed
etniche ecc.» (p. 234). Chi sia il soggetto che può far questo non
ci viene detto. Tuttavia il volume sceglie di aprire con una
confessione di pessimismo e di chiudere con un appello a Kant –
dalla diagnosi della regressione alla cura illuminista.
“il Sole 24ore,
Domenica”, 7 maggio 2017
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