Il testo è del 2006 ed è un capolavoro di ironia. Cavallaro, economista pervicacemente novecentista e keynesiano, fa il verso a quanti, anche da sinistra (ad esempio molti antiglobalisti e in Italia Revelli e Carta) hanno processato non lo statalismo o lo Stato, più o meno borghese, ma lo stato sociale, l'intervento pubblico in economia etc. I suoi paradossi acquistano più peso ora che la crisi ha spazzato gran parte di quella retorica e di quella paccottiglia teorica che ci ha tormentato (S.L.L.) .
Il Novecento è stato un secolo di errori, orrori e presunzioni fatali, quindi dobbiamo uscirne: è stato questo il leitmotiv della riflessione a sinistra negli ultimi quindici anni. Abbiamo creduto nel progresso, nello sviluppo, nel miglioramento delle nostre condizioni di vita, e non ci siamo resi conto che questa credenza scassava l'ambiente. Abbiamo creduto di poter riuscire a controllare il processo della nostra riproduzione sociale, invece di affidarci all'astratta impersonalità della (sua) natura, e abbiamo creato i gulag, i lager e perfino l'Iri e le Usl.
Abbiamo creduto nella capacità conformatrice della legge, dimenticando non solo che la norma è la faccia buona dell'esclusione, ma soprattutto che ci sono campi in cui non c'è norma, ma solo eccezione. Abbiamo postulato l'esistenza di strutture macrosociali - il capitale, lo stato, le classi, i partiti - quando l'unica entità analitica di rilievo è l'individuo. Abbiamo immaginato che esistessero obiettivi comuni a vaste masse (qualche megalomane diceva addirittura «universali»), dimenticando che le persone si dividono per genere e anche per colore, religione, gusti, e dunque tra le loro preferenze non è possibile alcuna sintesi - ciascuno/a è la misura del proprio destino.
Ci siamo stupidamente appassionati alla critica dell'economia politica, quando le uniche cose che contano sono la cultura, il linguaggio, i corpi. Abbiamo persino pensato all'esistenza di una realtà oggettiva, mentre invece non ci sono fatti, solo interpretazioni.
Per fortuna, oggi tutto questo è finito. Nessuno crede più che i pubblici poteri possano conseguire una qualche forma di «signoria sul denaro» senza coartare indebitamente le preferenze individuali, e proprio per questo ogni appello alla stabilizzazione del debito pubblico è destinato a cadere nel vuoto. Nessuno crede più che la funzione del benessere sociale possa essere frutto di una costruzione (una «sintesi») politica, e proprio per questo la comune opinione preferisce donare a un'impresa nonprofit piuttosto che sobbarcarsi un'imposta. L'idea che ognuno debba essere libero di coltivare il proprio giardino e che, quando non riesce a venderne i frutti, abbia diritto a ricevere un sussidio, si manifesta non solo in una recente legge che ha equiparato le crisi di mercato del settore agricolo alle calamità naturali, ma anche nelle variegate proposte di istituire un reddito di cittadinanza, a cui questo giornale ha dedicato un divertente dibattito estivo.
I «partiti tradizionali», del resto, non ci sono più e con ragione quelle umane aggregazioni che vagamente gli rassomigliano rivendicano la loro diversità. C'è in effetti ancora un po' di sindacato, che chiede soldi e politica industriale e fa scioperi, ma le sue teste pensanti (e le sue Fondazioni) non dubitano che il continuo fermentare e rinnovarsi del processo concorrenziale sia sempre e comunque preferibile al mar morto dello «statalismo». E conseguentemente si guardano bene dall'evocarne i fantasmi: il problema dell'Italia, del resto, «non è la domanda ma l'offerta», come ha spiegato il mio amico Valentino Parlato nel suo editoriale del 1° settembre.
È vero, molte e molti sono depressi. Lavori intermittenti, flessibili, di durata incerta non aiutano il consolidamento delle aspettative. Ma la felicità dipende dal rapporto fra le nostre aspirazioni e il modo in cui percepiamo la realtà, quindi l'importante è non farsi illusioni sbagliate (come quelle novecentesche). Dobbiamo essere sereni per accettare le cose che non possiamo cambiare, coraggiosi per cambiare quelle che possiamo e saggi per distinguere le une e le altre. Quindi, lasciamo stare Keynes: non di deficit abbiamo bisogno ma di risparmio, cioè di tasse e tagli, ché solo da lì possono venirci i soldi per investire in «beni comuni». In fondo, giusta le previsioni del Dpef, tasse e tagli ci daranno la decrescita; basterà aggiungere un po' di antagonismo sociale, una spruzzatina di commercio equo e solidale e la felicità verrà da sé.
La transizione, così, sarà compiuta: saremo finalmente oltre il Novecento. E al diavolo gli idioti come me, che perdono ancora tempo dietro alle fantasticherie di qualche economista defunto.
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