Scusa. Solo scusa dovrebbe chiedere la psichiatria ad Alda Merini che si è spenta ieri all’età di 78 anni a Milano, proprio nel giorno dei Santi, lei che era nata quando inizia primavera. Scusa perché nessuno debba più subire l’orrore del manicomio per tanti anni, raggiungere una santità obbligatoria per un lacerante martirio subito per decenni. Per sbaglio, a volte.
La vita amava Alda Merini, la vita anche “laggiù nei manicomi”, come scrive lei stessa in una delle poesie più significative quella, intensa e delicata, dedicata “A Franco Basaglia” (maggio 2007) al quale era legata da profondi sentimenti, sicuramente stima e gratitudine. I mondi dell'espressione artistica e della malattia mentale sono spesso stati sovrapposti, l'artista facilmente identificato con il folle. E' vero che poesia e follia hanno in comune “vite spericolate”. Per Artaud il folle è un poeta strangolato e già in Platone la poesia, condannata dal trionfo della filosofia, respinta ai margini del mondo e della legge, vagherà su accidentati sentieri sempre sul punto di perdersi. Questa confusione di ruoli e di destini si è alimentata con “la presa in giro” degli atelier della cosiddetta riabilitazione che nei manicomi ne rinforzavano la pura funzione custodialistica. Purtroppo anche in questa occasione leggendo di Alda Merini sui titoli di alcuni giornali abbiamo registrato titoli come “poetessa folle” o “poetessa dei folli”. Della sua disperata creatività, che le ha permesso di esprimere in versi e musica quell’urgenza di “tornare a fiorire”, come una pianta appassita che chiede acqua e aria per respirare l’odore della libertà, si tende oggi a ricordare la sua supposta follia poetica. Folle come sinonimo di genio artistico del resto è il luogo comune che forse ha finora salvato quelli diversi dagli altri (diversi da chi?) dallo sterminio totale, in nome dell’affermazione della presunta normalità dei cosiddetti sani.
Un postulato che Basaglia nel corso degli anni che prelusero all’approvazione della Legge 180/78, cercò in ogni modo di smantellare attraverso la lotta antistituzionale (Gorizia, Trieste, Arezzo) che portò alla chiusura definitiva dei manicomi nel nostro Paese, a una nuova etica nella visione del disagio psichico, alla restituzione della dignità e della libertà personale a tanti uomini, donne, vecchi, bambini.
Tanto amore ha espresso Alda Merini nelle sue liriche, nelle canzoni, nelle note che il suo pianoforte bisbigliava o gridava sempre in una inattesa armonia. Lei che, nonostante l’orrore del manicomio ringraziava la vita come “un dono”, non ha mai esitato a ringraziare Basaglia, “eterno soccorritore”, colui che guardando “in età giovanile” dentro al manicomio riconobbe sia che era un letamaio sia che i “matti” erano nonostante tutto ancora capaci di “baci assurdi alle vecchie cortecce della vita”, di sogni, di quell’inspiegabile tensione verso l’affettività di persone ridotte a “piante onnivore”, bisognose di qualsivoglia nutrimento e invece costrette a vegetare in uno stato larvale, a una omogeneizzazione impersonale scientemente voluta da un’inaccettabile barbarie a cui solo quella dei lager nazisti può essere comparabile.
Alda esprime, proprio nel componimento al suo liberatore, non solo il desiderio di tornare a vivere pienamente – mantenutosi sempre vivo anche nei peggiori momenti della sua esistenza – ma anche e soprattutto lo stupore della sua ritrovata identità personale, dimenticata come chi si sente una cosa buttata in un angolo, una rosa i cui petali cadono giù piano piano, ineluttabilmente, privi di linfa. Nessuno se lo aspettava, forse neanche lei che “la cosa più inaudita” che le potesse accadere nella vita fosse il momento della liberazione, della coscienza del vero sé, diverso per tutti, unico in ognuno di noi.
“Credi”, scrive rivolgendosi a Franco Basaglia, come in sussurro segreto. Mi piace immaginare quel momento “ nel vento, la bora, le navi che vanno via”, quel sorriso rosso, discreto, appena accennato ma finalmente liberatorio, con cui oggi vogliamo ricordarla e le siamo noi, a nostra volta, grati. Il sorriso incredulo e infantile, spaventato ma trionfante - conclude la Merini nel suo riconoscente sguardo a Basaglia, del giorno in cui “abbiamo scoperto che non eravamo mai stati malati” ma anche, diciamo noi con Thomas Mann: “Non ho mai udito una cosa più sciocca dell'affermazione che dai malati possa venire soltanto una cosa malata”.
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