La celebrazione molto in sordina, quasi un’omissione, dell’anniversario del Muro di Berlino su “il manifesto” ha molto irritato Rossana Rossanda, che ha preso di petto i suoi compagni di redazione in una sorta di requisitoria.
La tesi è che in tutta la sinistra, “il manifesto” incluso, la rimozione della vicenda dell’Ottobre, dell’Urss e di quello che si chiamava movimento comunista internazionale, oltre che del comunismo come obiettivo pensabile, è “una resa non confessata all’egemonia della destra”. Per Rossanda la capitolazione è malamente nascosta da un “esorcismo”: il ripetere che questi “sono problemi del Novecento, superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni”. A suo dire le due crisi parallele del modello sovietico e del compromesso socialdemocratico negli anni Settanta e Ottanta hanno prodotto in Europa una americanizzazione fondata sulle libertà politiche e la schiavitù sociale (giusta la formula di Hannah Arendt). Nel nuovo contesto “il manifesto” le appare una specie di Cuba, “isoletta socialista” che resiste nel non avere padroni, ma demotivata, divisa, subalterna alla ideologia dominante. Se il giornale non è capace di ritrovare, nell’analisi approfondita di quanto è accaduto, le ragioni del suo essere – lascia intendere Rossanda – il suo vivacchiare non serve a nessuno, neppure a chi lo fa.
La prima organica risposta a Rossanda non si è trovata sulle pagine del quotidiano comunista, ma su “Gli altri”. Il direttore Piero Sansonetti, senza reticenze, afferma che “l’errore che ha fatto fallire la rivoluzione di ottobre e cancellato il comunismo sta nella rivoluzione di ottobre e nel comunismo”, che il capitalismo è solo uno dei versanti nella storia della sopraffazione e che c’è ben altro da combattere (razzismo, sessismo, distruzione dell’ambiente eccetera eccetera), che l’obiettivo di ogni sinistra possibile dopo la caduta del muro non può che essere il massimo di libertà per tutti. Rossanda (e con lei “Ingrao, Tronti e tantissimi altri”) sarebbero prigionieri dell’idea che il problema principale della sinistra sia il radicamento nella classe operaia. “E’ un guaio” – scrive Sansonetti – “non perché il mondo sia cambiato (non solo perché il mondo è cambiato) ma perché neppure 50 o 90 anni fa le cose stavano così: il leninismo è stata una rovina per la sinistra”.
Ne consegue che i “pezzi” di nuovo pensiero politico (femminismo, ambientalismo, nonviolenza) non siano qualcosa gli ex comunisti dovrebbero accogliere e sottomettere al proprio pensiero, ma qualcosa dovrebbe cambiarli nel profondo e a cui dovrebbero sottomettersi. Secondo Sansonetti né Rossanda né Ingrao né Tronti sono disponibili a una simile svolta e “siccome tutta la generazione più giovane di intellettuali è subalterna al loro pensiero e al loro carisma, è l’intera sinistra ad essere rimasta senza la capacità di pensare”.
Il discorso di Sansonetti è inficiato da rozze semplificazioni. Annettere, senza riserve, Rossanda al leninismo è un falso. Chiunque conosca un po’ la storia del gruppo del “manifesto” sa che il primo articolo della rivista si intitolava Da Marx a Marx: una sorta di ritorno alle origini, che saltava Stalin e ridimensionava Lenin e l’Ottobre. Chi sa poco di storia, ma si occupa di comunicazioni, dovrebbe ricordare il magnifico slogan di una campagna pubblicitaria per “il manifesto”: la rivoluzione non russa.
Tuttavia lo sproloquio del direttore del “Gli altri” ha il merito di mettere i piedi nel piatto, di esplicitare il non detto che c’è nella linea di pensiero che da Occhetto arriva a Bertinotti. Occhetto, nell’anno che seguì la Bolognina, dichiarava di voler ricongiungere uguaglianza e libertà, pretendeva di ritornare all’Ottantanove del Settecento, quello della rivoluzione dei diritti, saltando non solo Lenin, ma anche Marx e la socialdemocrazia. Non era un caso che il nome scelto per la “cosa” (il nuovo partito che intendeva costituire), Partito democratico di sinistra, non contenesse alcun riferimento al socialismo, al movimento operaio e al lavoro e che il simbolo addirittura seppellisse sotto una quercia la falce e il martello, i simboli del lavoro manuale. L’Albero della Rivoluzione francese finiva così per sussumere, per contenere in sé quel tanto di buono che si riconosceva esserci stato nella storia del movimento operaio e peculiarmente nel Pci.
Quanto a Bertinotti, le ultime prese di posizioni in favore di una “sinistra di tutti” possono sembrare un ripiego dopo la sconfitta; ma sono in continuità con quelle (apparentemente radicali) del “movimento dei movimenti”, salutato come una “rivoluzione” da lui e dai suoi, Ferrero incluso. L’idea chiave era che la globalizzazione neoliberista, attaccando beni comuni, diritti consolidati, ambienti naturali e sociali, tradizioni e diversità, tendesse a comprimere tutte le conquiste di libertà (sociali, e civili, del lavoro, di genere). Non occorreva pertanto per rendere possibile un altro mondo né una classe generale né un progetto unificante: bastava che le tante vittime della globalizzazione e le opposizioni ideali (pacifisti, antirazzisti, ambientalisti etc.) si mettessero insieme senza diventare “masse”, ma restando “moltitudini”, cioè unità di diversi e di distinti.
Naufragata l’idea di “portare il movimento al governo”, Bertinotti, da sempre ostile all’unità dei raggruppamenti politici della cosiddetta “sinistra radicale”, obbligato dalla congiuntura elettorale, si convertì all’idea che occorresse una “massa critica”, rivelatasi in realtà un’ammucchiata opportunistica senza un barlume di progetto. Il Bertinotti di oggi vorrebbe tutti quelli di sinistra (anche Pannella, per esempio) insieme in un “soggetto politico” e non si spinge oltre; ma quel Sansonetti che egli chiamò alla direzione di “Liberazione” lo dice senza giri di parole: vuole un “partito democratico di sinistra”, una sorta di carovana come quella immaginata da Occhetto.
Quelli che a sinistra hanno cercato di resistere a questa deriva liquidatoria (i nomi fatti da Sansonetti sono quelli giusti) non sono meno critici di lui nel confronti degli sviluppi della Rivoluzione d’Ottobre o del “socialismo realizzato” e propongono un lavoro di scavo impietoso su tutta la tradizione comunista. Tronti lo cominciò subito, nel 1990, sulla “Rinascita” che dirigeva Alberto Asor Rosa, in due brevi saggi dal titolo emblematico Un revisionismo comunista (n.17, 3 giugno) e Grandezza e miseria del comunismo di Stato (n.38, 4 novembre). Rossanda partì con dieci note sul Pci e la “crisi del comunismo” (“il manifesto” 7 ottobre 1990) e arrivò alle “200 domande” di un testo nato per il dibattito interno alla redazione pubblicato sul quotidiano il 29 novembre 91. Nel 95 fu pubblicato Appuntamenti di fine secolo, il libro scritto a quattro mani da Rossana Rossanda e Pietro Ingrao, con l’intenzione di individuare i temi cruciali per la sinistra del dopomuro.
Nella ricerca spregiudicata di costoro molto c’è di discutibile (cioè degno di essere discusso), non certo la nostalgia per il comunismo sovietico o la sacralizzazione della classe operaia. Pubblicherò nelle prossime settimane quanto di quei testi datati mi pare tuttora utile al dibattito. Non voglio però sottrarmi al dire come la penso, ben sapendo che le opzioni di massima non sono una risposta e non possono sostituire né il movimento di lotta né la ricerca teorica, né l’organizzazione.
Primo. Comunismo sì o no? A me vent’anni fa piacque la formula della “rifondazione” cara a Sergio Garavini. Oggi quella parola è usurata e non si può più usarla. Ed anche per “comunismo”, data l’esperienza ricca e contraddittoria del ventesimo secolo, valgono più le controindicazioni che le indicazioni. Ma a una idea di società non basata sulla competizione ma sulla cooperazione ugualitaria, che non organizzi tutta la vita umana intorno alla proprietà privata e al mercato non si può rinunciare. Lo si chiami comunismo, socialismo, sole dell’avvenire o, se si vuole, Giorgio, un orizzonte è assolutamente necessario a chi voglia organizzarsi in un movimento di critica e di lotta contro lo stato di cose presente.
Secondo. Classe operaia o no? Anche qui non faccio questione di nomi, ma resto convinto che i lavoratori subordinati e sfruttati, in specie quelli manuali, restino il soggetto fondamentale della trasformazione. Me ne fornisce una riprova all’incontrario quanto è accaduto negli ultimi anni. Da quando la sinistra europea dice “non più welfare operaio, ma di tutti”, da quando invece che di lavoro preferisce parlare di “new labour” (nuovo lavoro) includendovi, come ha fatto Veltroni in campagna elettorale, anche i capitalisti, le cose vanno peggio non per i soli operai, ma per moltissimi altri. La classe operaia, finché è esistita come soggettività, ha avuto un ruolo determinante nell’affermazione di diritti sociali universali e degli stessi diritti civili. Da quando la sua forza è stata disgregata non si fanno più passi avanti e anzi si percepiscono segni evidenti di arretramento.
Terzo. Partito comunista, Partito socialista o Sinistra e libertà? L’arretramento di tutte le sinistre (in Europa, ma specialmente in Italia), a fronte del riemergere di tendenze autoritarie sul piano istituzionale, di strette antipopolari sul piano economico-sociale, di razzismi, sessismi, intolleranze di ogni tipo, esige la scelta di forma politiche aperte. L’analogia che mi viene in mente è quella dei Partiti socialisti di fine Ottocento, fondati su alcuni valori di fondo e fatti di tante forme organizzative (circoli operai e territoriali, gruppi culturali, giornali e riviste, organizzazioni sociali di base, cooperative, liste per le elezioni locali, rappresentanze parlamentari) e tanti orientamenti culturali e politici. Alla base c’era però la volontà di definirsi (cioè di separarsi) dalle altre forze di progressismo democratico e borghese; e di unirsi in un confronto teso all’unità, cioè a “fare massa”. In Italia non finì bene. Una maledetta spinta scissionistica operò fin da principio e incessantemente per decenni; altrove questo processo fondativo funzionò. Lenin e i leninisti hanno sempre espresso diffidenza per il “partito processo”. Pensavano a un partito con una teoria unificante, una dirigenza compatta, una disciplina militare. E’ un modello che è crollato col muro. Ma non per questo bisogna rassegnarsi a un piccolo, inutile partito meramente identitario, né accettare il modello del partito leaderistico (o addirittura personale), né pensare a una sorta di rassemblement di ristrette nomenklature senza seguito e di tipo puramente elettorale. Occorrerebbe che quanti sperano ancora in una sinistra politica e vorrebbero spenderci tempo, passione, fatica disinteressata, pur sapendosi e riconoscendosi diversi gli uni dagli altri si obblighino ed obblighino i piccoli capataz a stare insieme, a fare insieme proposte e battaglie, a maturare insieme orientamenti e linee politiche. Sono persuaso che nel confronto alla lunga vincerebbero le ragioni che mi spingono a vedere nei lavoratori la principale forza della trasformazione e nel comunismo il suo orizzonte.
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