L’organizzazione del Partito Comunista d’Italia, al mio paese natìo, Campobello di Licata, sopravvisse qualche anno alla Marcia su Roma e la sezione, nonostante un paio di invasioni squadristiche, conservò una sede, sebbene poco frequentata, fino all’estate del 1925, l’anno delle leggi fascistissime.
Mi è stato raccontato che, per salvare la bandiera rossa dalle imminenti perquisizioni, uno dei dirigenti, Mariano Miccichè, la consegnò a un suo cugino affidabile e insospettabile, che la nascose tanto accuratamente da non riuscire a ritrovarla nel 1943, quando dopo l’arrivo degli Alleati, i compagni avrebbero voluto esporla in piazza.
Nel lungo tempo trascorso, a sentirli, erano riusciti sempre il Primo maggio a portare in piazza il colore della riscossa nelle cravatte di alcuni di loro, benché qualcuno fosse al confino e qualche altro nella giornata dei lavoratori venisse portato dai carabinieri, senza ragione alcuna, in camera di sicurezza.
Leggo ora sui giornali che il Senato polacco ha varato una legge che punirà con pene fino a due anni di carcere “la produzione, la distribuzione, la vendita e il possesso di simboli del nazismo, del comunismo o di altri totalitarismi, in forma scritta stampata o di altro tipo”. La legge sarà presto firmata da Lech Kaczynski , il presidente della Repubblica, uno dei due famigerati gemelli nazionalisti e reazionari ed entrerà in vigore il primo gennaio. La norma certamente riguarda la bandiera rossa: chi continua a possederne dovrà distruggerla, buttarla via o ben nasconderla, se vorrà evitare le sanzioni. E’ una misura praticamente inutile in Polonia, l’unico tra i paesi dell’Est europeo ove non esistano movimenti politici nostalgici, ed ha una applicazione per molti versi difficile. E’ improbabile che gruppi di operai si rechino alla spicciolata nelle piazze di maggio con la cravatta rossa, ma non è chiaro se rischierà la galera il ragazzo che indossa la maglietta del Che o se si possano considerare simbolo del totalitarismo comunista le opere complete di Marx e di Lenin conservate in biblioteca.
Quella polacca è, in verità, una legge-bandiera, di quelle che non hanno effetti pratici, ma che vogliono imporre con la forza del diritto un dogma, una credenza indubitabile: in questo caso l’esecrabilità del comunismo e la sua equiparazione con il nazismo. Si tratta di una tesi risibile: non c’è alcuna somiglianza ideologica e di valori tra i cosiddetti totalitarismi di cui si parla. Il nazismo si fonda sui valori del sangue e della terra, parla di razze inferiori e superiori, esalta la gerarchia, propugna la sottomissione servile degli inferiori. Il comunismo non fa differenza né tra razze né tra nazioni, vuol eliminare la divisione di classi, vuole una radicale uguaglianza in cui non ci siano né servi né padroni. Com’è possibile fare in questo modo di ogni erba un fascio?
Eppure questa assimilazione dei cosiddetti “due totalitarismi” viene sostenuta da professori e preti, diffusa e propagandata da giornali e tv, imposta come verità intangibile anche fuori dalla Polonia dove non si sanzionano bandiera rossa o la falce e martello. C’è un elemento repressivo in tutto ciò, una spinta (totalitaria, ci viene da dire) a cancellare con i simboli ogni traccia di un grande movimento storico e ogni aspirazione a un cambiamento radicale della società.
Il comunismo novecentesco, in verità, è stato insieme due cose contraddittorie, ma spesso difficilmente separabili. E’ stato un movimento di liberazione che ha coinvolto milioni e milioni di donne e uomini, che hanno preso la parola e preso in mano il proprio destino, che si sono fatti massa per affermare il principio dell’uguaglianza e su questa base cambiare la vita. Ma è stato anche una teoria e una pratica del potere, che sulla base di uno stato di necessità ha prodotto e giustificato dittature, oligarchie, poteri arbitrari e incontrollati.
Io credo che, in qualche misura questa compresenza sia originaria e si possa intravedere persino nelle teorizzazioni del Che fare leniniano, ove si postula un’idea aristocratica e militaristica di partito. Il partito è l’aristocrazia dei dotti, non importa se intellettuali di mestiere o operai o artigiani, è il luogo dei detentori della “teoria”, senza la cui illuminazione la lotta di classe non produce “rivoluzione”. Il partito è definito una avanguardia, la parte più combattiva e più attrezzata nel combattimento dell’esercito del proletariato. Il sentire vagamente platonico (e inevitabilmente autoritario) che anima questa “teoria”, con l’emergere di una tripartizione che finisce col distinguere filosofi e guerrieri dai normali proletari, condiziona la prassi, anche se i tratti di fondo di quest’ultima esprimono soprattutto la liberazione progressiva di operai e proletari dalla soggezione e dalla paura, altre che dallo sfruttamento. Questo non significa affatto che in quell’opera, che in quella teoria del partito, che peraltro lo stesso Lenin avrebbe in diversi punti contraddetto o corretto, ci fosse in nuce tutto quello che poi è accaduto. I processi reali sono sempre contraddittori.
Io resto convinto, ad esempio, che nella Rivoluzione di ottobre, che da taluni venne già allora letta come una forzatura avanguardistica, nettamente prevaleva la spinta di massa verso la liberazione. “Pane, pace e libertà” era lo slogan che nei giornali bolscevichi accompagnava lo sforzo rivoluzionario delle masse popolari, ma quel “libertà” ultimo per ordine, non era tale per importanza. Ce lo dice la straordinaria cronaca in diretta dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, e ce lo dicono a centinaia testimonianze di ogni tipo, diari, lettere, poesie, racconti: quella rivoluzione era una presa della parola prima ancora che una presa del potere.
Com’è possibile, allora, che il comunismo, il movimento mondiale che nacque da quella rivoluzione, contraddittoria ma di sicuro portatrice di libertà nuove per tutti, sia vissuto da interi popoli o dalle grande maggioranze di essi (come nel caso polacco) soltanto come oppressione? Com’è possibile che le verità del capitalismo vincente siano accettate senza reazione anche da chi (spesso soprattutto da chi) avrebbe un mondo da guadagnare da una rivoluzione che spezzi il primato della proprietà privata e del mercato?
Mi è capitato di criticare il lungo intervento di Lucio Magri a Perugia, il 26 scorso, nell’occasione della presentazione del suo libro, ma ne ho trovate pregevoli alcune parti. Egli saggiamente indicava un passaggio cruciale nella guerra (non solo) civile contro i generali zaristi, la Guardia bianca e le ingentissime truppe straniere d'invasione. E’ in quel momento che si affermano come ceto dirigente e corpo separato le oligarchie politiche e militari che segnano la storia dell’Urss e condizionano profondamente quella del neonato comunismo internazionale. Dal “comunismo di guerra” si origina molto probabilmente il comunismo di caserma, di Stato, oltre che di partito, che nel tempo metterà in scena grandi tragedie e celebrerà altrettanto grandi trionfi e che infine si esaurirà nella vergogna per consunzione e implosione. E da lì forse bisognerà partire per analizzare senza giustificazionismi i fenomeni degenerativi, e per mettere in campo teorie e pratiche di liberazione che salvino il comunismo del nuovo secolo dai fantasmi del passato.
Stalin, nel pieno della guerra mondiale, fece appello ai comunisti e ai proletari dei paesi sottoposti al giogo fascista, chiese loro di “risollevare le bandiere della libertà buttate nel fango dalla borghesia”. Oggi ci toccherà di risollevare le bandiere rosse gettate nel fango dagli stalinisti.
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