24.11.09

Resisterville (Ettore Mo)


In due articoli (31 agosto e 6 settembre) Ettore Mo sul Corsera ha raccontato la storia dei militari Usa fuggiti dalla guerra in Iraq, che hanno cercato rifugio in Canada. Ne riprendoo qui un estratto.  La vicenda è molto interessante: la guerra irakena comincia ad apparire sempre più sporca di quanto non sembrasse perfino a noi, oppositori dichiarati. Chissà che non ci sia in giro qualche documento sull'indottrinamento dei soldati Usa in partenza per l'Iraq.   (S.L.L.)


Una combriccola di vecchi lievemente anarchici
Molti li defi­niscono, sbrigativamente, «disertori», altri preferiscono chiamarli «war resisters» (cioè resistenti, obiettori di coscienza contro i conflitti at­tualmente in corso in Iraq e in Afghanistan): sono circa 220 i soldati americani che, rifiutando di combat­tere per «una guerra ingiusta» hanno trovato rifu­gio in Canada, a Toronto. Ma di loro solo il 50 per cento ha fatto richiesta al governo di Ottawa di residenza permanente nel Paese, non avendo al­cuna intenzione di rimettere piede negli Stati Uni­ti. Il primo incontro è il soldato Jeremy Hinzman, nel pub Einstein, frequentato da una combriccola di goliardi e vecchi lievemen­te anarchici: "82esima Airborne Division. Ho firmato un contratto di 4 anni con l’esercito e sono stato subito destinato all’Iraq, dove c’era quel mostro di Saddam Hussein e dove c’erano anche, nascoste, centinaia di armi di distruzione di massa. Quest’ultima, una notizia falsa, gonfia­ta dalla propaganda. Io sono un quacchero e la mia coscienza non mi consentiva di combattere più a lungo in una guerra che lo stesso presidente Obama ha definito 'stupida' e 'ingiusta'. E così, nel gennaio del 2004, ho passato il confine insie­me a due compagni".

Sulla vicenda dei «disertori» americani l’atteg­giamento delle autorità canadesi è ambiguo. Do­po il ’69 e negli anni più ruggenti della guerra in Vietnam circa 55 mila soldati arruolati nell’eserci­to degli Stati Uniti varcarono la frontiera (lunga 8.891 chilometri) e si rifugiarono in Canada, ac­colti a braccia aperte dai canadesi e dal governo liberale di Pierre Trudeau, felice di offrire "un por­to di pace" a quei ragazzi usciti incolumi ma avve­lenati nell’intimo per aver combattuto una guer­ra in cui non credevano.
Venticinque anni, Jeremy Hinzman può vantar­si di essere il primo soldato americano ad aver messo piede su suolo canadese, a Toronto, nella regione Ontario. Ed è anche il primo ad aver af­frontato le autorità e il Canadian Immigration and Refugee Board per regolarizzare la propria po­sizione come immigrato. Ma la sua richiesta di es­sere accettato come «profugo politico» è stata re­spinta. Lo stesso è accaduto a una cinquantina dell’Army e dell’Air Force americani che sperava­no di ottenere la cittadinanza canadese. Il difenso­re e paladino di questa legione straniera accampa­ta sulle sponde dell’Ontario è Jeffry House, un av­vocato americano che si rifiutò di andare a com­battere in Vietnam ed ora vive a Toronto: "Vengo­no da me per chiedere aiuto ed io posso fare ben poco. Ma definirli 'disertori' è vi­le. Sono semplicemente profughi di guerra".

Non c'è nessuna scusa
Di tutt’altro parere è il ministro dell’Immigra­zione Jason Kenney e del suo governo presieduto da Stephen Harper. Insieme a Hinzman, definito dai suoi superiori «un soldato esemplare», altri sono stati colpiti dall’ordine di espulsione e vivono nell’ansia, in attesa che venga loro comunicata la data del prov­vedimento. Dal tem­po dell’invasione in Iraq, nel 2003, più di 25 mila soldati americani hanno disertato l’esercito Usa — un aumento dell’80 per cento rispetto al perio­do 1998-2003 — e che la maggioranza ha scelto il Canada come rifugio permanente.
Il caso che più appassiona l’opinione pubblica a Toronto è quello di Kimberly Rivera, che tutti chiamano Kim: una signora texana di 27 anni, ma­dre di tre figli, l’ultima — Katie — di appena otto mesi. È stata la prima donna-soldato ad abbando­nare l’esercito che l’aveva arruolata nel marzo del 2006 e l’aveva subito spedita in Iraq a svolgere mansioni di controllo e vigilanza a un posto di blocco militare: "Me ne sono andata proprio in segno di protesta contro quella guerra. E non s’illudano che, deportando­mi e mettendomi di fronte a un Tribunale milita­re, io cambi idea: che rimanga in Canada o ne ven­ga cacciata, quella è la mia opinione e la griderò ai quattro venti".
Come tanti altri, Kim era partita per l’Iraq con entusiasmo e speranza: "In quei tre mesi a Ba­gdad mi sono chiesta quale aiuto potevamo dare a quella povera gente. Mi faceva male vedere l’arroganza dei nostri militari. Non avevo scelta. Sono arrivata qui il 18 febbraio del 2007". L’avvocatessa che si occu­pa del suo caso non si fa troppe illusioni: "Non credo che il fatto che la sua bimba più piccola, Katie, sia nata in Canada favorisca il tentativo di ottenere la resi­denza permanente. Il suo rientro negli States comporterebbe problemi molto gravi. Con l’accu­sa di diserzione potrebbe finire in carcere per un paio d’anni. Neanche Obama potrebbe farci nien­te. La Corte marziale è inflessibile coi disertori".
Alcuni dei profughi militari vengono dall'Afghanistan. Commovente il racconto di Jules Tindungan, che è stato in Afghanistan dal gennaio 2007 al­l’aprile 2008: "Ho combattuto nei distretti di Gar­dez e di Khost. I talebani ci attaccavano anche due volte al giorno. Lassù tra quelle montagne c’era poco da mangiare e anche l’acqua scarseg­giava. Il 20 settembre del 2007 ho avuto confer­ma di aver ucciso un uomo. Erano passati sei gior­ni dal mio ventunesimo compleanno. Trascorsi una notte d’angoscia". Anche Chris Vassey ha combattuto per tre mesi in Afghanistan contro i talebani e racconta di avervi incontrato un giovane poco più che ven­tenne che s’era appena arruolato nell’esercito per avere, con l’ingaggio, la somma necessaria (30 mi­la dollari) al ricovero in ospedale della madre.
Nel suo libro The Deserter’s Tale (Racconto del disertore) che il "Los Angeles Times" qualifica come "un sostanziale contributo alla Storia", l’au­tore, Joshua Key, che dopo l’11 settembre s’era ar­ruolato nell’esercito per difendere il suo Paese da Al Qaeda, scrive: "All’inizio io credevo nella mis­sione in Iraq. Saddam Hussein era un mostro che andava tolto di mezzo e bisognava privarlo delle armi di distruzione di massa che erano nelle sue mani. Ma erano tutte balle. Non è stato trovato niente, in Iraq". Nel 2003 Key ha partecipato col suo plotone a 75 raid, irruzioni nelle case private col pretesto di snidare i terroristi, furti e rapine a mano armata, ed è stato testimone di un numero incalcolabile di delitti. A un certo punto racconta che, passeggiando per Bagdad, si è trovato di fronte a una "scena terribile": "Tutto quello che potevo vedere erano corpi decapitati e tra i corpi e le teste c’erano dei soldati americani. Ho visto due soldati prendere a calci una di quelle teste co­me fosse un pallone". E conclude: no, non c’è nes­suna scusa per quel che ho fatto in Iraq.

Una guerra ingiusta e illegale
Glissa Manning, celebre avvocatessa che da anni difende i disertori, qui eufemisticamente definiti War Resisters (resistenti alla guerra), spiega: "Per il Viet­nam c’era l’arruolamento obbliga­torio. Arrivava la cartolina precetto e dovevi presentarti al Comando: mentre l’esercito ame­ricano in Iraq è costituito in gran parte da vo­lontari che confluiscono per motivi economici o ideali. Solo che molti di loro, disgustati dalle nefandezze commesse in Iraq dai soldati ameri­cani, hanno abbandonato il campo senza abban­donare il Paese. È stato un problema di coscien­za. Non potevano più a lungo tollerare la conti­nua violazione dei più elementari diritti uma­ni » .
La maggior parte dei "resistenti" viene dall'Iraq e non ha mai combattuto in Afganistan. In generale tendono a distinguere tra quella guerra "giusta", "voluta dall'Onu" e quella in Iraq, nata dalla menzogna. Non si sa se ciò rientri nella strategia della piccola "legione straniera" per ottenere dal governo di Ottawa una risposta positiva. In effetti il fenomeno della diserzione è cominciato do­po l’invasione dell’Iraq: su questo sembrano concordare tutti, politici e militari. "Molti dei nostri soldati che s’erano arruolati prima — fa notare Michelle Rubidoux, portavoce dei War Resisters — contavano di rimanere nell’eserci­to e rispettare la clausola del contratto, che di solito li impegnava per quattro anni. Poi ci fu il patatrac. Si scoprì che i vertici militari avevano sfornato un sacco di menzogne. Delle armi di distruzione di massa strombazzate dalla propa­ganda, neanche l’ombra. Infine venne alla luce la vicenda sul comportamento dei soldati ameri­cani in Iraq. Ignobili. Tu che hai appena intervi­stato una dozzina di reduci dalle sponde dell’Eu­frate sai di cosa parlo".
In questo momen­to, mentre il Governo conservatore di Stephen Harper (Centro-destra) si attiene alla linea dura (deportazione negli Usa), il 64 per cento della popolazio­ne è favorevole alla richiesta di "residenza per­manente " avanzata dall’avanguardia dei Resi­stenti- Disertori. Ma neanche la (sommessa) ammissione di Barack Obama che, riferendosi all’Iraq, conti­nua a parlare di «dumb war», una guerra «stupi­da » e decisa «in fretta», e la denuncia dei falsi allarmi sulle armi di distruzione di massa e sul­l’alleanza fra i terroristi di Al Qaeda e il regime di Bagdad so­no riuscite ad «ammorbidire» il governo. Il ministro dell’Immigrazione Ja­son Kenney è da sempre convin­to che i War Resisters non so­no «autentici profughi o rifu­giati politici come intendono far credere» e «non subiscono affatto persecuzioni nei loro Paesi». Affermazione smentita dalle cronache più re­centi da cui risulta ad esempio che Robin Long, 25 anni, accusato di diserzione, è stato deporta­to negli Stati Uniti, dove sta scontando 15 mesi d’isolamento in un remoto accampamento mili­tare.

Negri di sabbia
A Toronto, i giudici canadesi si rifiutano di affrontare in Tribunale i processi contro i diser­tori, cominciati nel 2004. "Essi ritengono — spie­ga il legale dei War Resisters — che non sia lo­ro compito intervenire, dal momento che non si tratta di un’azione giuridica, destinata ad esa­minare caso per caso, ma di un processo essen­zialmente politico che riguarda, appunto, la po­litica estera degli Stati Uniti. La sola nostra spe­ranza è un riesame della situazione da parte del Governo Federale nei suoi rapporti con la Casa Bianca".
Nella sua aspra requisitoria, l’ex combattente Joshua Key dedica ampio spazio alla propagan­da americana e al suo tentativo di demonizzare e demolire gli iracheni, che «non sono uomini» ma semplicemente «sand niggers», negri di sab­bia. Gente che non ha niente in comune con il genere umano, dal momento che «tutti i musul­mani sono terroristi e tutti i terroristi sono mu­sulmani » . Bisogna dunque eliminarli: questo è il mes­saggio di pace che i soldati yankee, addestrati ed educati in caserma nello spirito della concor­dia universale, portano nelle giberne volando verso Bagdad. Chi si augurava, come milioni di pacifisti in tutto il mondo, che George W. Bush finisse in prigione, schiacciato dalle proprie re­sponsabilità, è rimasto deluso. Insieme a Jo­shua, sono in molti a chiedersi ora quale potreb­be essere la reazione dei Padri Fondatori di fron­te allo spettacolo odierno della loro America. Sgomento è forse la parola giusta.

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