Sarà che invecchio, sarà che persino nelle sue stridenti contraddizioni la manifestazione scuoteva il mio cuore malato ma indomito, ma mi sono commosso fino alle lacrime nell'ascoltare stamani, attraverso Radio radicale, la celebrazione postuma dei cento anni di Maurizio Valenzi svoltasi l'altro ieri, il 15 novembre. Non era solo la memoria di quel sindaco galantuomo che, a tarda età, aveva affrontato con vigore inusitato le prove cui veniva sottoposta la sua città di Napoli, ma era tutta intera la sua storia, lì rievocata dalla lettura di passi del libro che lo ricorda ("L'alfabeto di Maurizio") da parte di Mariano Rigillo e Cristina Donadio o dalle testimonianze della figlia o di un galantuomo come Antonio Ghirelli. Questa storia, celebrata attraverso la consegna alla figlia Lucia del premio Napoli per la cultura, rendeva tollerabili non solo gli interventi del sindaco Russo Jervolino o del cosiddetto governatore Bassolino, ma perfino quello del presidente della provincia inquisito per mafia o del sempre untuoso Gianni Letta.
La prima tappa di questa storia è una giovinezza nordafricana, a Tunisi, frutto di una emigrazione verso Sud di siciliani, napoletani, toscani di cui, in questi tempi di razzismo galoppante, occorrerebbe rinverdire la memoria. Poi tra Roma e Parigi, la vocazione artistica, la pittura, abbandonata abbastanza presto per un'altra più forte chiamata, che lo spinge a compiere quella che il suo grande amico Giorgio Amendola definì una "scelta di vita".
Valenzi aderisce con tutta l'anima e tutto il corpo all'ideale comunista che lo porta a militare prima nel partito comunista tunisino, poi in quello italiano. Resistente in Francia subisce la tortura, poi è mandato in Italia, a Napoli a preparare l'arrivo di Togliatti.
Infine la carriera di quadro del partito fino a quella elezione a Sindaco, senza maggioranza (in consiglio doveva trovarla di volta in volta, mentre sul bilancio era sostenuto dal voto "tecnico" della Dc) e alle prese con il terremoto, cui seppe far fronte con una onestà e una energia che gli guadagnò il sostegno e l'affetto di tutta la Napoli per bene.
Il discorso più atteso era quello del presidente Napolitano, che ne ha approfittato per fare l'elogio non solo di Valenzi, ma di tutta una generazione di "politici di professione", la cui passione e il cui coraggio erano pari alla incorruttibile moralità. Ha così indirettamente polemizzato sia contro l'"antipolitica" sempre serpeggiante nella destra sia contro il politicantismo carrieristico, quando non affaristico.
Questo discorso gli è valso il 16 novembre sul "Giornale" di Berlusconi la critica di Veneziani che lo ha accusato di voler così valorizzare tutta la "vecchia" politica del teatrino, la prima repubblica sopravvissuta a Tangentopoli, contro la nuova classe dirigente rappresentata da Berlusconi e dai più "antipolitici" dei suoi. Il Presidente della Repubblica ha trovato il giorno dopo un paio di agguerriti difensori, Umberto Ranieri su "Il riformista" e Paolo Franchi sul Corsera, secondo i quali l'intellettuale destrorso non aveva capito bene. Napolitano, a loro dire, aveva sì difeso il politico di mestiere, ma solo quello che si faceva carico del bene comune. Franchi si era messo addirittura a citare Max Weber. Tutto un equivoco insomma.
In realtà, se un equivoco c'è, esso nasce dall'opportunismo linguistico di Napolitano, che ha usato l'eufemismo "politico di professione" per intendere un'altra cosa. In realtà, finchè ci fu il Pci, mai i suoi funzionari si definirono "politici di professione". Per lungo tempo i comunisti, anche quelli "di destra" come Amendola, Valenzi, Chiaromonte o lo stesso Napolitano si chiamarono, secondo la terminologia leniniana, "rivoluzionari di professione". Più tardi per indicare il proprio ruolo si chiamavano dirigenti o quadri politici, del movimento operaio o del partito, quasi a sottolineare come il loro non fosse un ruolo che trovava in sè la sua giustificazione, ma che era funzione ed espressione della base di massa.
Va aggiunto che, mentre tra i socialisti la fede turatiana nel "sole dell'avvenire" non assumeva caratteri religiosi, i comunisti stalinisti e togliattiani entravano in una Chiesa, che limitava fortemente la libertà e da cui non si poteva uscire senza tradire, ma che esaltava il coraggio, lo spirito di sacrificio, il legame con il popolo. La modestia, la sobrietà, il disinteresse personale di tanti uomini dell'antico Pci (peraltro capaci di una estrema durezza, al limite della crudeltà, contro il dissenso interno e contro gli eretici del marxismo) non si capiscono fuori da questo quadro di fede e di disciplina ecclesiastica. Stalin diceva e in tutto il mondo si ripeteva che "i comunisti erano fatti di un'altra pasta", Berlinguer ne sottolineò fino all'ultimo la "diversità". Ma questa diversità era inseparabile da un programma di rivoluzione sociale. Nei paesi in cui i comunisti non partecipavano del potere la scelta "comunista" non era affatto la scelta della professione di politico, come vorrebbero Franchi, Ranieri e persino Napolitano, era molto di più, l'assunzione sulle proprie spalle di una missione. E' ovvio che quel modello fideistico di partito, di organizzazione presenta gravissimi rischi: un capo comunista o un rivoluzionario di professione, se alla rivoluzione comunista non credono più, sono come un cardinale o un vescovo che non credono in Dio. Uomini di potere, in cui il cinismo della specie peggiore è un pericolo sempre incombente.
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