Nel 1990 una ex-allieva,
laureanda in architettura, stava preparando una tesi sui caffè
letterari. Sperando di ricavare dal dialogo qualche dritta, mi chiese
di raccontarle qualcosa sugli spazi della comunicazione culturale
nell’antichità. La conversazione, come era prevedibile, fu lunga
e piena di divagazioni. Le promisi di mettere per iscritto qualcosa.
Lo feci con questi appunti che della conversazione mantengono la
disorganicità e che nelle intenzioni costituivano solo l’incipit di un più lungo discorso.
Il testo è inedito. (S.L.L.)
Nel saggio Sulla
Rivoluzione, Hannah Arendt inserisce la storia dei rivoluzionari
di professione secolo in quella, secondo lei ancora da scrivere,
dell’ozio produttivo. Essi apparterrebbero alla stessa schiatta
degli artisti e dei letterati moderni, che, pur essendo dei morti di
fame, si concedevano il lusso di non lavorare per il proprio
sostentamento. In realtà molti pittori e poeti dell’Ottocento e
del primo Novecento, come tanti repubblicani, anarchici o socialisti,
sono eredi degli hommes de lettres del Seicento e del
Settecento, frequentatori dei salotti aristocratici, ma ammiratori
della borghesia; ora però formano la bohème, poiché, per
tutti loro, il termine bourgeois ha acquistato un significato
odioso, estetico ed etico prima ancora che sociale e politico. Contro
lo spirito borghese, essi si costruiscono nel bel mezzo di un secolo
indaffarato e affannato della rivoluzione industriale un’isola
d’ozio, di cui il caffè è luogo canonico. L’ozio consiste nel
pensare, leggere, scrivere, conversare, progettare libri, quadri,
spettacoli e sommosse.
Questa nozione di ’“ozio
produttivo”, utilizzata dalla Arendt in riferimento all’età
moderna, è in realtà presa di peso dall’antichità classica. E’
forse da scriverne la storia, ma possiede una preistoria
paradossalmente ricca di documentazione scritta: l’otium
delle civiltà classiche fornisce infatti alla modernità modelli e
forme che è possibile ritrovare, modificate, nella cultura dei
salotti settecenteschi come dei caffè ottocenteschi.
Lo spazio del simposio
Il termine otium è latino, ma la pratica risale al mondo greco e, in particolare, ateniese, ove la concezione del tempo è strettamente connessa con l’idea di libertà tipica della polis. E’ libero non solo e non tanto chi dispone della possibilità di movimento nello spazio, ma soprattutto chi è padrone del proprio tempo di vita: l’opposto di “libero” non è infatti prigioniero, ma "servo", schiavo.
Nel modello di “città” disegnato da Aristotele nella Politica si realizza una tripartizione funzionale: agli schiavi è assegnato il compito di produrre le condizioni della vita materiale, alle donne di generare ed allevare i futuri cittadini, ai cittadini quello di deliberare e governare. Il libero cittadino ateniese era talora costretto ad impiegare una parte del proprio tempo in attività economiche (gestione dei poderi, vendite, acquisti, speculazioni commerciali) ma non era questa la sua vera vita. Essa si realizzava pienamente solo nella politica, concepita non solo come diritto, ma anche come dovere. Con una generalizzazione forse eccessiva, Benjamin Constant individuò in questo obbligo il tratto che differenziava la libertà degli antichi da quella dei moderni, ove la prima è essenzialmente “libertà nella politica” e la seconda può anche essere “libertà dalla politica”.
In realtà l’iperpoliticizzazione della società ateniese non era affatto comune a tutte le città del mondo ellenico e, già prima di Pericle, nella vicina Ionia, s’era sviluppata l’idea che la libertà non si esaurisse nel ruolo di cittadino, ma che potesse esprimersi anche in un sapere disinteressato, nella ricerca della verità, nella conversazione colta, nel gioco amoroso o nella gioia del canto. Non casualmente la Ionia è considerata la culla della poesia lirica e della filosofia. Da lì giungono infatti le prime espressioni della ideologia della “convivialità”. Così Senofane, poeta e filosofo:
Sì, bisogna parlarne accanto al fuoco
d’inverno, sopra un morbido cuscino,
bevendo vino dolce, sgranocchiando
ceci tostati: “Chi sei? Da dove
vieni?
Quanti anni hai, carissimo? Dov’eri
quando venne il Persiano?”
(traduzione di S.L.L.)
Così Anacreonte, il più celebrato cantore del banchetto, il quale dissente da chi “tracannando ampie sorsate da una coppa ricolma, parla di politica e di guerra” e dichiara di apprezzare solo chi è in grado di “accoppiare nel simposio gli splendidi doni delle Muse e di Venere”.
Anche ad Atene, del resto, la pratica conviviale giovava a temperare il sovraccarico di politica che spesso investiva la comunità. Il dialogo più bello di Platone, il Simposio, rappresenta una lunga, vivacissima conversazione sul tema “che cos’è l’amore”. Al di là dei temi propriamente filosofici, il testo si distingue per la colorita caratterizzazione dello svolgimento del banchetto, dei personaggi, dei lazzi e dei frizzi che lo animano. Ne è coronamento lo stupendo finale. Socrate, quando il vino e la conversazione hanno prosciugato a quasi tutti ogni energia, continua ad intrattenere gli ultimi due sopravvissuti, un tragediografo e un commediografo, sulla sostanziale identità tra la tragedia e la commedia. Poi, all’alba, quando anche questi interlocutori crollano, lui, che più di tutti ha parlato e bevuto, si leva dal divano e si reca a compiere le abituali occupazioni mattutine, il bagno e la palestra, fresco come una rosa.
Il Socrate di Platone anche negli altri dialoghi, anima con la sua conversazione insinuante tutti i luoghi dell’otium ateniese, dal simposio all’agorà, dal mercato alla palestra; è propriamente un costruttore degli spazi del sapere dialettico e comunicativo. Gli ambienti più diversi ne sono infatti come ristrutturati e rifunzionalizzati a contenitori dello scambio di saggezza.
Non è un caso che, dopo Socrate, le principali scuole filosofiche prendano nome dai luoghi ove si pratica la “filosofia”, cioè la forma più alta di “ozio produttivo”, imperniata sulla difficile ricerca della verità. Così i seguaci di Platone si chiameranno Accademici dagli orti di un tal Accademo; quelli di Aristotele Peripatetici dal loro passeggiare intorno (peripatein) al Liceo, l’antico tempio d’Apollo; i discepoli di Zenone Stoici dal portico istoriato (Stòa poikiile), ove il maestro amava conversare; mentre il pensiero di Epicuro sarà detto “filosofia del giardino” dal luogo deputato dei banchetti filosofici. Fuori da questi spazi, più o meno chiusi, stanno i Cinici, così designati dai loro detrattori, perché come cani randagi bighellonano per piazze, trivi e mercati, animandoli con le loro polemiche anticonformiste (le cosiddette diatribe).
Non è un caso che, dopo Socrate, le principali scuole filosofiche prendano nome dai luoghi ove si pratica la “filosofia”, cioè la forma più alta di “ozio produttivo”, imperniata sulla difficile ricerca della verità. Così i seguaci di Platone si chiameranno Accademici dagli orti di un tal Accademo; quelli di Aristotele Peripatetici dal loro passeggiare intorno (peripatein) al Liceo, l’antico tempio d’Apollo; i discepoli di Zenone Stoici dal portico istoriato (Stòa poikiile), ove il maestro amava conversare; mentre il pensiero di Epicuro sarà detto “filosofia del giardino” dal luogo deputato dei banchetti filosofici. Fuori da questi spazi, più o meno chiusi, stanno i Cinici, così designati dai loro detrattori, perché come cani randagi bighellonano per piazze, trivi e mercati, animandoli con le loro polemiche anticonformiste (le cosiddette diatribe).
Fra i molti spazi per l’ozio produttivo del mondo greco centrale resta comunque quello del simposio. La parola significa “bere insieme” e il vino è al centro dell’esperienza comunicativa come l’infuso di caffè lo sarà spesso nel mondo moderno. Nella sala da pranzo (il peristilio), la più grande e decorata della casa, portate via le “prime mense”, cioè i tavoli apparecchiati con cibi solidi (carni, pesci, legumi e verdure), giungevano le seconde, quelle proprie del simposio, frutta secca, dolciumi ed altre leccornie, il cui scopo era di accompagnare e stimolare il consumo del vino, che a sua volta doveva creare le migliori condizioni per la conversazione e la comunicazione, per il canto, la poesia e l’immaginazione filosofica. Così Pindaro si rivolge al padrone di casa:
O Trasibulo, ti porto questo dono di canti.
Forse saranno per tutti riuniti
uno stimolo dolce al frutto di Dioniso,
alle coppe ateniesi nel convito,
quando i tristi dolorosi pensieri
emigrano lontano dal cuore
e tutti siamo come in un mare
un grande mare d’oro
e navighiamo verso le rive dell’inganno
e il povero diviene ricchissimo uomo.
(traduzione di Enzo Mandruzzato)
L’inganno, la bella menzogna che fa ricchi, è appunto l’illusione che l’ebbrezza e la gioia creativa della immaginazione poetica e filosofica disegnano e costruiscono per colmare di senso i vuoti della vita.
Il tramonto della Grecia classica e l’avvento della civiltà ellenistica non intaccano, piuttosto consolidano e generalizzano a tutto il Mediterraneo le forme di otium nate in Atene e nella Ionia. Negli stati ellenistici (monarchie autocratiche o poleis formalmente indipendenti) il restringersi degli spazi di partecipazione politica dilata quelli della vita privata. E’ questa la base storica di filosofie meno legate al tradizionale concetto di cittadinanza, come lo stoicismo cosmopolita, o radicalmente impolitiche come l’epicureismo, che codifica la superiorità morale dell’otium rispetto al negotium.
Intanto nelle contemporanee società italiche, unificate dalla potenza romana, i modelli di comportamento provenienti dalla cultura ellenistica inducono novità e squilibri. Nel II secolo a.C. gli Scipioni raccolgono intorno alla loro potente famiglia una cerchia di amici, protetti e clienti, i quali praticano il grecian way of life. Il termine che si usa per designarla, circulus, ne segnala l’esclusività (il cerchio è figura perfettamente chiusa), ma le selettività dell’ambiente è data più dall’aristocrazia dell’ingegno che dalla condizione sociale o giuridica. Vi hanno accesso non solo esponenti della nobiltà gentilizia, ma anche plebei, liberti e perfino servi, soprattutto quando siano di origine ellenistica e di raffinata cultura.
Con poco successo e qualche contraddizione, Catone, alla testa degli antiellenisti, valorizza l’immagine del romano antico, buon cittadino, padre di famiglia e agricoltore, perennemente dedito agli affari e alla politica, fedele ad una tradizione (mos maiorum), che esigeva la gravitas (serietà) e limitava ogni forma di svago e di divertimento considerata contraria alla dignitas. La denuncia della capacità corruttrice dell’otium, inteso nei suoi vari significati (compreso quello di pace sul piano militare), resterà una costante della letteratura latina, soprattutto storiografica, ma è nella maggior parte dei casi un luogo comune populistico e moralistico, che non impedisce ai poeti, agli oratori, agli scrittori di storia di coltivare in proprio gli allettamenti che denunciano negli altri.
Nel I secolo a.C., infatti, i costumi ellenistici si propagano tra i ceti elevati: sempre più spesso i banchetti si svolgono alla greca e si diffondono la filosofia e la lirica d’amore. Gli aristocratici e i notabili legano a sé dotti e poeti attraverso il “patronato”, le loro case di città e di campagna diventano sempre più lussuose, decorate con affreschi e statue che riproducono modelli greci, e sono spesso luogo di incontro raffinato di filosofi, poeti e belle donne.
Cicerone tenta un’ardua conciliazione teorica tra otium e negotium nella figura dell’orator, persuasore dell’utile e del giusto. Mentre afferma il primato della politica, valorizza le lettere e le arti come manifestazione più alta della humanitas (ciò che fa di un uomo un uomo e lo distingue dalle bestie), le considera corredo indispensabile per l’uomo politico. Così ambienta nelle case e nelle ville signorili le opere filosofiche in cui espone, in forma dialogica, le dottrine dei Greci. Una di queste opere, le Tusculanae disputationes (“Conversazioni avvenute a Tuscolo”), si svolge proprio nella sua casa di campagna, ove amenamente si ragiona dei temi più ardui, l’anima, dio e molto altro.
Al compromesso ciceroniano si oppongono i giovani che simpatizzano per l’epicureismo e si dilettano con la poesia lirica. Uno di quelli che Cicerone chiama con disprezzo poetae novi, Catullo, pubblica un libretto di poesie in cui incondizionatamente si esaltano le gioie del banchetto, dell’amicizia letteraria, dell’amore e senza appello si condanna il moralismo ipocrita dei senes severiorum (i vecchi troppo severi). Anche nelle sue poesie, di quando in quando, si insinua il dubbio che follie e sofferenze d’amore possano nascere proprio dall’ozio (otium tibi molestum, “l’ozio ti fa male”, recita nel carme 51), ma il succo del messaggio è piuttosto il disimpegno dalla politica e la valorizzazione delle pratiche oziose di ogni tipo. Il carme 50 comincia con Heri, Licini, otiosi. La poesia racconta un incontro pomeridiano di Catullo con Licinio Calvo e la successiva notte insonne del poeta e ha come tema principale la gioia ed il desiderio della comunicazione poetica. L’otium cessa di essere pausa, sospensione, di essere al margine della vita, diviene qui il centro effettivo ed affettivo di ogni vivere autentico.
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