2.9.12

Maigret, il detective senza idee (di Massimo Raffaeli)

«Io non penso mai», oppure «Io non tiro conclusioni», o anche «Io non ho mai idee».
Le storie del commissario Maigret sono costellate di simili dichiarazioni, che, pronunciate nella patria di Cartesio, costituiscono un vero e proprio paradosso. Maigret è infatti un individuo del tutto sprovvisto di immaginazione dialettica e di estro deduttivo. Pesante, schermato da un'opacità che può sembrare bovina, egli passa il tempo a ruminare sensazioni piuttosto che a pensare. Pare stia meditando ma in realtà è perduto in una congestione psicofisica che lo stringe allo stomaco, gli martella le tempie e, d'inverno, si annuncia con tremendi raffreddori di testa. Vale ricordare che tra la notitia criminis e la risoluzione del caso trascorrono di regola due o tre giorni, i quali sono infatti scanditi da torpide sedute al bistrot (con cicli progredienti di birra tiepida, cognac, calvados) ovvero da sprofondamenti nella poltrona del suo ufficio al quai des Orfèvres, cui si alternano peraltro fulminee sortite sui luoghi del delitto. Lì è come si immergesse, volta a volta, dentro una pienezza sinestetica che si sprigiona preferibilmente da un sentore, da un odore. Maigret ha bisogno di assaporarlo e metabolizzarlo sino in fondo, prima di entrare in azione.
Ciò significa che prima d'essere un detective (nulla gli è più distante dell'algida teoretica di un Poirot) il commissario è, alla lettera, un semiologo: compiacendo virtualmente il metodo che fu di Aby Warburg ed è di Carlo Ginzburg, il suo paradigma indiziario necessita in effetti del dettaglio concreto, di una minima deiezione del quotidiano o traccia fisica che sia, per rendersi efficace. (Che Maigret abbia studiato da giovane semeiotica medica non è un mistero per nessuno: nella biografia vagheggiata da Georges Simenon, nel 1907 Jules, ventenne orfano di entrambi i genitori, si vede costretto a interrompere gli studi presso la facoltà di medicina dell'Università di Nantes e a trasferirsi a Parigi ove presto si arruola nella polizia). Nemmeno è un caso che Simenon associasse il suo personaggio prediletto alla pazienza lenticolare dei pittori fiamminghi, e lo definisse anzi, per la capacità di isolare i dettagli, «un fiammingo minore».
Tuttavia Maigret ha bisogno che trascorra del tempo per compulsare/introiettare il dettaglio primario e connetterlo via via ai dettagli successivi: perciò sprofonda volentieri nel dormiveglia, traffica con la pipa che non vuole accendersi, e sembra abbuiarsi in un fosco ruminare i cui soli sintomi sono gli sbuffi, di noia o rabbia costipata, i cicchetti propinati al fedelissimo Lucas e la densa traspirazione che per regola alona alle ascelle le sue grisaglie un poco anacronistiche. È a tale stadio di semivacuità e presunto vuoto che tornano, affiorando alla stregua di grumi, i dati parziali che, a loro volta, compongono il totale, cioè ridisegnano in emblema l'evento delittuoso trascorso. Maigret non deduce nulla; viceversa, il suo penare e vano almanaccare vengono ricompensati di colpo dall'intuizione, o meglio da un'illuminazione che ha qualcosa dell'istantanea zen. Lo scopo infatti non consiste per lui in un astratto conoscere, quanto in un etimologico «comprendere», quasi nel ri-vivere o comunque nel ri-vedere quel che fino a un attimo prima sembrava privo di figura complessiva e perciò chiuso nel geroglifico dei dettagli irrelati. Maigret sarà pure un borghese malinconico, un liberale totalmente disincantato, ma c'è da giurare avrebbe sottoscritto la massima di Lenin secondo cui è inutile vedere migliaia di alberi ignorando cosa sia una foresta, come avrebbe condiviso la dottrina dell'unico collega che in letteratura gli somigli, anche nella sonnolenza e nel vestire ordinario, don Ciccio Ingravallo del Pasticciaccio, ubiquo ai casi e nemico giurato, in criminologia, delle ipotesi schematiche e monocausali: «Sosteneva, fra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero che alla romana vuol dire gomitolo». In ciò le vicende del commissario si somigliano tutte e assumono cadenza persino obbligata, fatale: basti leggere adesso Maigret, Lognon e i gangster (traduzione di Laura Frausin Guarino,) e Maigret e la Stangona (traduzione di Emma Bas, pp. 163), i titoli più recenti dell'ottima collana di Adelphi «Le inchieste del commissario Maigret» (a cura di Ena Marchi e Giorgio Pinotti), che lo ripropone in integrale e in versioni accurate, così liberandolo dalla veste (certo classica, ma un po' troppo grigia e stazzonata) dei vecchi Oscar Mondadori. Rispettando il cursus cronologico (Simenon dedicò a Maigret settantasei romanzi e ventisei racconti, editi fra il 1931 e il 1972) entrambe le storie risalgono alla piena maturità di genere, 1951, e furono scritte, come sempre in poco d'ora, nell'oasi americana di Lakerville, in Connecticut: l'una si connette a un intrigo internazionale che fa emergere la vena più domestica (e un filino, magari, sciovinista) di Maigret, l'altra invece si legge come una storia sua tipica, di borghesia parigina crassa e ipocrita che nasconde i propri delitti in un villino-bene dalle parti di Neuilly. È nel primo dei due romanzi che, a un certo punto, Maigret svela la sua metodica paradossale, vale a dire la smaniosa sofferenza che prelude alla folgorazione zen: «Non dormiva, però. Aveva caldo, e gli sembrava di avere un po' di febbre. Con gli occhi socchiusi, cercava di riflettere, ma la sua mente si annebbiava e ogni pensiero si concludeva invariabilmente con la stessa affermazione: 'Li inchioderò!' Come ci sarebbe riuscito, era un'altra faccenda. A dire il vero non ne aveva la minima idea, ma poche volte in vita sua era stato così deciso a risolvere un caso».

“alias”, 6 settembre 2003

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