La più grande sciagura del ventesimo secolo: così, con la consueta efferatezza, Thomas Bernhard definisce la fotografia nel suo romanzo terminale Estinzione (1986).
Ma è solo l’ultimo e più paradossale esito di un rapporto, quello fra la parola scritta e l’immagine fotografata, che proprio al culmine della civiltà audiovisiva, sembra approdare a una drastica risoluzione ovvero a un’ambigua convivenza che nulla faceva sospettare agli albori della tecnica fotografica, meno di due secoli fa, quando le foto di alcuni dilettanti di genio, per esempio Giovanni Verga o Emile Zola, potevano apparire ai lettori sia il palinsesto sia il materiale preparatorio di una narrativa fondata sul principio naturalistico della verosimiglianza, anzi della aderenza obiettiva e impassibile alla realtà: da noi, la prima riedizione postbellica di Conversazione in Sicilia (’41) era ancora accompagnata (non si dica necessariamente illustrata) da una mirabile sequenza fotografica, nel set di Aci Trezza, a firma di quel Luigi Crocenzi che proprio Elio Vittorini, in piena stagione neorealista, aveva avviato al foto racconto sulle colonne di «Politecnico».
Il senso comune appare oggi rovesciato. Grandi opere della cosiddetta postmodernità non rifiutano né la tematizzazione dell’immaginario fotografico né l’apporto di singole fotografie ma, viceversa, tendono a incorporarle nel testo quali indici di incertezza, di labilità o di una vera e propria, sia pure involontaria, contraffazione, perché qui le immagini, nella loro invadenza come nella nudità ammutolita, testimoniano di uno scacco percettivo e dunque di una sostanziale impotenza cognitiva: che vengano mostrate o semplicemente richiamate con l’antica tecnica dell’ekphrasis, esse fungono da presenze enigmatiche, assillanti, chiedono di essere interpretate e tuttavia rifuggono da un senso che possa dirsi appagante, compiuto, come nel caso di W o il ricordo dell’infanzia (’75) di Georges Perec, di Dora Bruder (’97) di Patrick Modiano e di Austerlitz (’01) di Winfried G. Sebald, tre notevoli esempi, fra i molti altri evocabili, del fatto che l’immagine non assolve la parola dalla sua ambiguità ma, al contrario, la reduplica e virtualmente la sanziona. Non è nemmeno un caso che Perec, Modiano, Sebald vedano bruciare, con la propria parola, ogni specie di vestigia fotografiche e documentarie al cospetto di Auschwitz, cioè il tabù e insieme il massimo costrutto della verità secolare: se, disse un filosofo, là davanti è impossibile la poesia, costoro suggeriscono che altrettanto lo è la fotografia, pari a ogni altro medium espressivo. E infatti, a proposito del W di Perec, l’inchiesta allegorica di chi ebbe entrambi i genitori inghiottiti dalla guerra e dall’universo concentrazionario, viene rilevato: «Perec trae dall’esame di quelle foto considerazioni sempre insicure, ambigue, basate sull’interferenza dei racconti di altri, delle letture, delle immagini che popolano la nostra memoria, dai quadri nei musei ai libri illustrati, ai giornali ai fumetti; insomma consapevolmente false».
Sono parole poste quasi in conclusione dell’ultimo bellissimo studio di Remo Ceserani, L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura (Bollati Boringhieri, «Nuova Cultura», pp. 389), un libro che se da un lato colma un vuoto, metabolizzando e riordinando un’intera galassia di studi (e basterebbero i nomi di Walter Benjamin, Gisèle Freund, Roland Barthes, Susan Sontag, John Berger), dall’altro fornisce un esempio di che cosa significhi, sul serio, occuparsi di letteratura comparata, la stessa che Goethe presagiva nel concetto di Weltliteratur. (Qui viene in mente il motto di un maestro dello studioso già docente a Bologna e Stanford University, il quale deprecava
che i comparatisti passassero tutto il tempo a parlare di comparatistica esimendosi, di fatto, dalla pratica della comparazione. Questo libro ne è la più solenne smentita, come innanzitutto testimoniano le cento pagine fra bibliografia, accuratissima, e indice dei nomi nonché la piena confidenza con le maggiori lingue e letterature occidentali. Che poi l’oggetto di indagine sia il rapporto secolare fra la parola letteraria e l’immagine fotografica – come, per altra via, letteratura e rivoluzione dei trasporti in Treni di carta. L’immaginario in ferrovia, 2002 – , ciò denota l’attitudine ermeneutica di chi è comparatista due volte, indagando non solo i nessi fra lingua e lingua ma tra linguaggio e linguaggio). Diviso in cinque capitoli raccordati dall’interno, L’occhio della Medusa scandisce per cronologia alcuni temi essenziali: la figura del fotografo come personaggio, la fenomenologia letteraria del ritratto fotografico, l’utilizzo della foto quale promemoria o reliquia autobiografica, la forma e il destino della foto di gruppo (familiare e sociale), infine il ri-uso della foto nella produzione letteraria strettamente contemporanea.
In altri termini, l’universo fotografico è studiato alla stregua di un grande campo metaforico la cui dinamica accompagna l’evoluzione e lo statuto conflittuale della modernità. Prima il naturalismo con le sue propaggini novecentesche (Hawthorne, Henry James, Thomas Mann), poi l’età delle avanguardie o del modernismo radicale, cioè l’epoca dell’utilizzo antinaturalista e inventivo della foto (primi fra tutti Apollinaire e Luigi Pirandello, alla cui produzione novellistica, disseminata di fotografie, Ceserani dedica passaggi penetranti), da ultimo la condizione postmoderna, laddove il compasso si apre non solo alle opere degli autori citati in precedenza ma a testi di Claude Simon, Grass, Calvino, Cortázar, Tabucchi, Ondaatje e specialmente di Michel Tournier, uno scrittore-fotografo divenuto col tempo fotografo-scrittore, forse colui che più di ogni altro, in tempi recenti, ha indagato il rapporto fra il segno alfabetico e fotografico con implicazioni esistenziali/intellettuali così profonde da rischiare il depotenziamento della sua stessa parola letteraria. (Se un rilievo si può avanzare al lavoro di Remo Ceserani è, semmai, di avere preventivamente escluso dal proprio dominio la grande letteratura di reportage e l’uso deliberatamente politico dell’estetica fotografica, da Bertolt Brecht a Kurt Tukholsky, per non andare troppo lontani).
Nume dell’Occhio della Medusa è comunque Marcel Proust, le cui pagine sono utilizzate tanto alla stregua di un deposito teorico quanto di un test itinerante. Costui, nel terzo volume della Recherche, a un certo punto evoca il fantasma della nonna, amatissima, e racconta il crudele paradosso di averla una volta sentita più viva al telefono che non dal vivo, dal vero, aggiungendo di essere perciò andato a trovarla di sorpresa. Ne descrive l’agghiacciante risultato: «Dime – per l’effimero privilegio grazie al quale, nel breve istante del ritorno, ci è dato d’assistere improvvisamente alla nostra stessa assenza – non era presente che il testimone, l’osservatore, l’estraneo in cappello e soprabito da viaggio, colui che non è di casa, il fotografo venuto a ritrarre luoghi che non vedremo mai più. E ciò che, meccanicamente, si formò ai miei occhi quando vidi la nonna, fu appunto una fotografia». Se vogliamo, è un Thomas Bernhard in anticipo di almeno sessant’anni, ma è anche il suo antidoto.
In questa ricerca, che è anche un enorme repertorio comparatistico, Ceserani interroga l’universo fotografico quale campo metaforico della modernità, che ha modificato lo statuto della Letteratura: dal naturalismo con le sue propaggini novecentesche a un fotografo-scrittore postmoderno come Tournier
“alias”, 17 settembre 2011
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