Nell’agosto del 2011, per il settantesimo giorno anniversario della morte per impiccagione a Elabuga di Marina Cvetaeva, “il manifesto” pubblicò un profilo critico della grande poetessa russa (con riferimento a due riedizioni italiane) da cui qui riprendo un ampio stralcio (S.L.L.)
La poesia di Marina Cvetaeva sorge sul terreno ambiguo di una duplice insoddisfazione: se, da una parte, l'orizzonte sensibile è percepito costantemente come un limite da superare, dall'altra sin dalle liriche degli anni '10 emerge distintamente il rifiuto di una trascendenza assoluta, l'impossibilità di trovare acquietamento in una visione astratta, disincarnata della realtà. Se la parvenza tangibile delle forme appare alla poetessa moscovita troppo grossolana e spiritualmente immota, se il suo sguardo vorrebbe trafiggere la superficie del mondo per penetrarne l'essenza, d'altro canto nei versi giovanili si avverte lo spavento quasi infantile verso un aldilà percepito come minaccioso e, insieme, irresistibilmente attraente. Già nei versi d'esordio di Album serale (pubblicato nel 1910 a diciassette anni) allo slancio spontaneo verso una pienezza sensuale dell'esistenza fa da contraltare la tentazione - espressa in modo altrettanto irruente - di oltrepassare la soglia della vita, spezzare ogni vincolo terreno in una vertiginosa autocombustione. Una tendenza, quest'ultima, che assunse col tempo una evidente centralità, legandosi alle occorrenze di un percorso esistenziale sempre più rovinoso, che troverà la sua pietra d'inciampo finale nel ritorno in Urss - quasi un suicidio anticipato rispetto al gesto estremo che Cvetaeva consumò a Elabuga, città della Repubblica Tatara dove, sfollata da Mosca in seguito all'aggressione hitleriana, si impiccò il 31 agosto 1941.
Sebbene l'aggettivo «fatale» ricorra con abusata frequenza nelle biografie uscite di recente, è davvero arduo sottrarsi all'impressione che le cose non sarebbero potute andare altrimenti, stante la fascinazione che la «morte verticale» esercitava da sempre sulla poetessa. Una verticalità - quella del corpo esamine appeso a una corda - che significava anzitutto slancio ascensionale contrapposto alla passiva orizzontalità dell'esistenza non trasfigurata dall'arte, e che, nella sua iconografia tragica, rinviava a quello stesso chiodo cui la Cvetaeva nel Poema dell'aria immaginò di agganciare l'incipit della creazione poetica, ovvero frammenti singoli di quel «linguaggio che nega la propria massa e le leggi di gravità» (secondo la formulazione di Iosif Brodskij).
Neppure il sentimento amoroso poteva sottrarsi a questa fuga verso l'alto (o, meglio, «caduta all'insù») e infatti fu sottoposto spesso a dure requisitorie in quanto elemento perturbatore dell'equilibrio precario dell'individuo, nonché indizio per eccellenza del suo radicamento nel mondo fenomenico.
Ultima rappresentante di quella generazione autodissipatasi di poeti di cui già nel 1930 Roman Jakobson aveva evidenziato il ruolo sacrificale, la Cvetaeva seppe rileggere con esiti altissimi archetipi mitici, letterari e folklorici alla luce di quella che Caterina Graziadei ha definito «la sua personale ansia di superamento». A ricordarcelo sono le due opere del periodo parigino con cui l'editoria italiana è andata incontro - finora alquanto timidamente - alla poetessa nel settantesimo anniversario della scomparsa: la tragedia Fedra (1928), già tradotta da Luisa De Nardis nel 1990 e ora riproposta da Marilena Rea per Pacini e Le notti fiorentine, «piccolo trattato sull'impossibilità dell'amore» secondo Serena Vitale che ha rivisto la propria edizione datata 1983 a fronte delle nuove acquisizioni testuali, ripresentandola per Voland con un'ampia introduzione aggiornata... «Ho ideato una Fedra di ossa - non di carne», commentava l'autrice a margine della sua attualizzazione della infelice eroina classica, che nella unione irrealizzabile con il figliastro Ippolito ricerca non il piacere effimero dei sensi, bensì il sonno eterno della morte. Il dramma innescato dall'eccezione alla norma (ossia dall'infrazione del tabù dell'incesto) si trasforma qui nella consueta «tragedia del mancarsi» che separa gli amanti, causata a sua volta dalla conclamata sproporzione tra sogno e veglia, immaginazione e realtà, tensione desiderativa e imperfetto compimento delle proprie aspirazioni.
L'urgenza di affrettare la «caduta all'insù», autoalimentando una passione percepita da subito come distruttiva, riaffiora anche nelle nove lettere inviate nell'estate del 1922 a Abram Visnjak, fondatore della casa editrice Gelikon che a Berlino all'inizio degli anni Venti pubblicò esponenti di rilievo dell'emigrazione… Alla proposta dell'editore di tradurre dal tedesco Le notti fiorentine di Heinrich Heine, la poetessa replicò con un crescendo di insonni notti berlinesi, consumate nel dialogo epistolare a distanza con un interlocutore ampiamente trasfigurato, che ben poco aveva a che vedere col reale Visnjak. E se la ossessione da cui è posseduta Fedra crolla al cospetto della iperbolica misoginia di Ippolito, i fantasmi inseguiti da Marina Cvetaeva nelle sue nove missive (poi autotradotte in francese nel 1933 per un fallito tentativo di pubblicazione) si dilegueranno più prosaicamente di fronte all'eclissarsi di Visnjak, bibliofilo e tranquillo padre di famiglia, interessato più ai manoscritti della poetessa che alle sue dichiarazioni d'amore. L'unica forma di ritorsione che resterà alla Cvetaeva consisterà nell'ostinarsi a non riconoscerlo, quando a distanza di anni lo rivedrà a Parigi a un ballo in maschera. Un'ennesima conferma - se necessario - di come non fosse il vero volto di Visnjak a interessare la poetessa: «È l'anima che si vendica, accecandomi fino a farmi dimenticare i vostri tratti, illuminando quelli reali, che non avrei mai amato».
“il manifesto”, 31/8/2011
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