Etero, gay o
single, una casa per tutti i bambini
Se l’Italia alla fine
avrà la legge che riconosce le unioni omosessuali, resterà comunque
una grave discriminazione nel nostro Paese. Le coppie dello stesso
sesso continueranno a non poter adottare. La stessa possibilità sarà
negata ad aspiranti genitori single. Mentre per mesi il
dibattito politico si è intestardito e incarognito attorno alla
stepchild adoption, poco o niente si è detto del divieto
principale: quello che impedisce a omosessuali e non accoppiati
persino di essere presi in considerazione come potenziali buoni
genitori. Una battaglia rinviata, una dimenticanza, o una rimozione,
che corre parallela alla grande crisi delle adozioni?
Le parole hanno la loro
importanza, e danno importanza. Fino a qualche tempo fa, per
“adozione” si intendeva un incontro tra mondi in un certo senso
alieni: tra un figlio in cerca di genitori e potenziali genitori in
cerca di figli. Da una parte, un bisogno, codificato nel diritto di
ogni bambino ad avere una famiglia; dall’altra, un sogno, un
progetto, e una disponibilità. La stepchild adoption, ossia
l’adozione del figlio del coniuge, era ed è una delle fattispecie
di “adozione in casi particolari”: il riconoscimento di un legame
di fatto già esistente, più che la ricerca di un incontro o la
realizzazione di un progetto. Prima consentito solo alle coppie
sposate, poi esteso dalla giurisprudenza anche ai conviventi. Come
mai allora da “caso particolare” è diventato quello centrale, e
dunque casus belli sul quale cercare addirittura di affossare
il primo riconoscimento giuridico in Italia delle coppie omosessuali?
In parte, questa
attenzione unica, poi diventata ossessiva, alla adozione del
figliastro è dovuta allo stesso impianto minimalista della legge,
che nasce come un compromesso: non è un vero matrimonio, non si può
fare una “vera” adozione. Vedendo il lato positivo, si può
aggiungere però che così almeno si interviene su quel che già c’è,
e si dà il giusto riconoscimento a legami che si sono creati, che
coinvolgono bambini in carne ed ossa, biologicamente figli di uno dei
membri della coppia ma accolti e amati da entrambi. Ma l’attenzione
esclusiva sulla stepchild si è poi infiammata su altro: il
potenziale legame con la pratica, illegale in Italia, della
gravidanza surrogata. Sarebbe ipocrita negare questo nesso. Ma è del
tutto strumentale, e anche intellettualmente disonesto, agitarlo per
bloccare le unioni civili: sarebbe come voler abolire, per tutte le
coppie etero, la possibilità di stepchild adoption, poiché
attraverso questa finestra può entrare quello che il nostro
ordinamento vieta, ossia la pratica, consentita in altri Paesi,
dell’utero in affitto. Oppure – allargando lo sguardo – abolire
le adozioni tout court, poiché in giro nel mondo c’è
qualcuno che pratica commercio di bambini.
Alla parte più
reazionaria dell’Italia, quella che non vuole ammettere che la
famiglia è cambiata, non è parso vero potersi concentrare sul
fantasma per negare la realtà. La parte più progressista, quella
che vive già nella realtà la stabilità – o anche l’instabilità,
moneta corrente per tutti – delle coppie omosessuali, vive da
lontano, come un po’ lunare, la discussione parlamentare su commi e
“canguri” dai quali dipende il proprio futuro. Ma anche questa
parte progressista ed emancipata ha tralasciato la battaglia per
l’adozione alle coppie gay e ai single. Forse perché ha pensato
che fosse una battaglia persa in partenza. O perché, come
raccontiamo nell’inchiesta di questo numero di pagina99,
l’adozione, nazionale e internazionale, è una realtà in declino.
È drastico il calo dei bambini adottati, e parallelamente sono scese
anche le domande da parte delle famiglie. Ci siamo chiesti se si
tratti di un cambiamento indotto da fattori materiali: scoraggiamento
per adozioni sempre più difficili, condizioni esterne complicate,
soprattutto sullo scacchiere internazionale, burocrazia ostile, costi
crescenti e insostenibili in tempi di crisi. Oppure se su questo
cambiamento incidano anche fattori culturali, un maggior favore verso
il figlio “proprio” (anche solo per metà) o addirittura
un’ossessione genetica favorita dai progressi nelle tecniche della
riproduzione. Domande enormi e dalle risposte non definitive; però
uno sguardo sul campo dice che prevale lo scoramento, per un’impresa
che si è fatta sempre più difficile, a volte impossibile. Non tanto
e non solo perché “ci sono pochi bambini”, ma perché la
macchina per far funzionare quel miracoloso incontro tra alieni va
mantenuta, oliata, nutrita, aggiustata col mondo che cambia. Va
aperta, smontata e rimontata.
Ecco perché abbiamo
voluto titolare, echeggiando uno slogan, “più figli per tutti”.
In un’Italia che fa sempre meno figli e che sembra chiudersi su se
stessa anche nella disponibilità ad accogliere i figli degli altri,
l’unica possibilità è rilanciare e aprire. Aprire le famiglie
esistenti (tutte) a minori che una famiglia non ce l’hanno. E
aprire le nostre teste di fronte alla realtà del fatto che le
famiglie, felici o infelici che siano, forse non si somigliano tutte
ma sono tutte uguali.
Pagina 99 we, 13 febbraio
2016
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