In quegli anni, gli "anni
duri" della restaurazione e della guerra fredda, Vittorio Foa
lavorava nella segreteria della Cgil al fianco di Giuseppe Di
Vittorio. "Un giorno", racconta nel bel libro
autobiografico pubblicato da Einaudi, Il Cavallo e la Torre,
"Bruno Trentin ed io ci accorgemmo che Di Vittorio voleva
incontrare Valletta per richiamarlo ai principi di umanità. Insieme
esercitavamo la massima sorveglianza per impedirglielo. Ma ci scappò
di mano e lui andò lo stesso a Torino, tornandone ovviamente a mani
vuote. E molto turbato".
Foa, che cosa era
successo?
"Di Vittorio,
politico raffinato che tuttavia 'sentiva' la fabbrica in termini di
solidarietà e non di specificità, aveva sottovalutato un aspetto
essenziale di Valletta: e cioè che egli s' era formato a una cultura
del comando, verso operai e verso governanti. E il suo modo di
proporsi si configurava unicamente come rapporto di forza. Una scelta
assai più radicale rispetto alla stessa Confindustria diretta allora
da Angelo Costa".
Possiamo
considerare il vallettismo la versione italiana del maccartismo?
"La definizione mi
sembra troppo forte, ma certo il vallettismo non era soltanto un modo
di organizzare il lavoro e la produzione. Era anche un'attiva scelta
politica. Non credo sia giusto ritenere che la disciplina così
rigida instaurata alla Fiat rispondesse solo a criteri di
organizzazione del lavoro e neppure che fosse un semplice riflesso
della guerra fredda e dello scontro durissimo con i social-comunisti.
Valletta faceva politica, comportandosi da ministro di polizia -
ricordo la schedature degli operai Fiat e la condanna in primo e
secondo grado dell'avvocato Garino, capo del personale - e da
ministro degli Esteri".
In che senso?
"Un episodio: nel
1954 Valletta incontrò a Roma, all' ambasciata Americana, l' allora
rappresentante Booth Luce. La rozzezza dell' ambasciatrice era nota
in tutto il mondo. In quel periodo si dava da fare perché Valletta
licenziasse tutti i comunisti. Lui tendeva a frenarla, ma in sostanza
le dava assicurazioni, come risulta dai documenti pubblicati da Gian
Giacomo Migone sulla “Rivista di storia contemporanea”. Ricordo
che Valletta, quasi a sua discolpa, si giustificò con la Luce
accampando di trovarsi in 'una situazione forzatamente democratica' :
insomma, non poteva mica licenziarli proprio tutti...".
Come si viveva
allora alla Mirafiori?
"Le paghe erano
molto basse, il lavoro pesante, la disciplina oppressiva. Era l'epoca
dei reparti-confino, nei quali venivano isolati i dipendenti più
attivi politicamente perché non contagiassero tutti gli altri.
Questi operai erano gli stessi che avevano collaborato attivamente
alla ricostruzione dopo la guerra". Chi c'era? "Tanti,
tantissimi. C'era Fernando Bianchi, coordinatore delle commissioni
interne alla Fiom, giaccone nero e motocicletta. C'era Dino Pace,
futuro dirigente di rilievo della Cgil piemontese. C'erano Giovanni
Longo, Vito D' Amico e Giovanni Roveda... E c' era la memoria storica
del movimento operaio, come Luigi Battista Santhià, collaboratore di
Gramsci all'Ordine nuovo, e Giovanni Parodi, segretario del consiglio
di fabbrica durante l'occupazione nel settembre del 1920: una
fotografia lo ritrae nello studio di Giovanni Agnelli senior. E
vorrei ricordare anche gli uomini del sindacato - Egidio Sulotto,
Sergio Garavini e Gianni Alasia, Emilio Pugno e Bruno Fernex - un
gruppo culturalmente moderno, per certi aspetti più avanti della
stessa Cgil e del Pci".
Ma la Fiom non fu
mai percorsa da radicalismo antindustriale? Non diede mai pretesti a
Valletta per la sua azione repressiva?
"La Fiom non fu mai
contagiata da umori antindustriali. Oggi si ricorda con ironia il
famoso convegno sul 'supersfruttamento': in realtà quella parola
serviva ad indicare la fatica fisica e psicologica derivante dai
ritmi di lavoro. Un problema eterno. E vorrei far riflettere su un
fatto: quando nel 1955 la Fiom perse le elezioni per le commissioni
interne, non si trattò soltanto della sconfitta di una linea
sindacale, ma si trattò soprattutto della vittoria della Fiat.
Tant'è vero che tre anni più tardi la Cisl, vincitrice di quelle
elezioni, si sarebbe divisa al proprio interno, abbandonando la sfera
aziendalistica per tentare il dialogo con una Fiom cambiata".
C'è un suo ricordo
personale di quegli anni?
"Erano tempi
terribili, in cui il governo sparava su contadini ed operai. In
Parlamento le sedute erano incandescenti. Il mio amico Antonio
Giolitti mi raccontava ieri che, dopo i tumulti, ci si doveva
occupare dei commessi contusi e feriti. Una volta il deputato
comunista Di Mauro, segretario della Camera del Lavoro di Catania,
s'avventò sul banco del governo per mordere all'orecchio il ministro
dell'Interno Mario Scelba. Quarant'anni dopo, vedendo alcuni
parlamentari sulla stessa china, mi accorgo di quanto siano
conservatori".
Quant'è rimasto
del vallettismo oggi alla Fiat?
"Il vallettismo come
disciplina discriminatoria non c' è più da un pezzo. Ma è rimasta
l' idea della propria infallibilità, ossia il primato del comando".
la Repubblica, 4 marzo
1993
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