È tanto che non frequento i treni, specie quelli a lunga percorrenza; ma li ricordo perfettamente quei vagoni pienissimi, di sera, di notte o nelle fredde albe, con i bimbi intirizziti e gli uomini stanchi di lavoro a riempire i corridoi con i corpi, accucciati o sdraiati, avvolti nei cappotti. Mi mette perciò insieme tristezza e tenerezza questa poesia di Rodari, bellissima, che sembra riportarmi a quelle emozioni. La si può definire un plazer per i contenuti, una di quelle poesie, la cui codificazione risale ai trovatori di Provenza, in cui si esprime un desiderio, quasi sempre impossibile; ma è anche un enueg, visto che per antitesi rappresenta una serie di condizioni e situazioni sgradevoli. Rodari riesce qui a coniugare ottimamente la denuncia dell'ingiustizia sociale e il sogno di un mondo più giusto e felice, specie nel finale che rammenta il Transiberiano di Blaise Cendrars. (S.L.L.)
Ah, s’io fossi il padrone del treno,
certe sere quando è pieno,
certe sere piovose e grige
che i bimbi dormono sulle valige,
e tu vedi solo un fagotto
ma è un piccolino nel suo cappotto,
e un marinaio sul pavimento
dorme e sogna il suo bastimento...
io, biglietto o non biglietto,
li manderei tutti in vagone letto.
Darei loro una bella cabina,
con la cuccia pulita e caldina,
e a cullarli ci penseranno
le ruote che vanno, che vanno, che
vanno...
da Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi, 1960
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