Alla fine dell'anno
scorso nel sito di Sandro Portelli è stato postato, nel centenario
della tragica morte un ricordo di Joe Hill, a mio avviso bellissimo,
che qui ripropongo. (S.L.L.)
Era la fine del 1915,
cent’anni fa. A Salt Lake City, Utah, i tribunali e lo stato
uccisero Joe Hill, militante e bardo del sindacato rivoluzionario
degli Industrial Workers of the World (IWW). Dal carcere, aveva
scritto: “So che molti ribelli importanti dicono che la satira e la
canzone sono fuori luogo in un’organizzazione di lavoratori, e
ammetto che le canzoni non sono indispensabili alla causa; ma ogni
volta che mi viene, continuerò a scrivere queste mie sciocchezze
cantate, anche se so bene che la lotta di classe è una cosa seria.”
Scrive Tom Morello, musicista ribelle di oggi: “Senza Joe Hill, non
ci sarebbero Woody Guthrie, Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Clash, i
Public Enemy, Minor Threat, System of a Down, Rage against the
Machine.” Joe Hill spiegava: “Un opuscolo, per buono che sia, lo
leggi una volta e basta, ma una canzone la impari a memoria e la
canti e la canti; se prendi un po’ di nudi fatti e di senso comune,
li rivesti con un po’ di umorismo per renderli meno aridi, e li
metti in una canzone puoi raggiungere tanti lavoratori troppo poco
istruiti o troppo indifferenti per leggere un opuscolo o un
editoriale.” La base degli IWW erano lavoratori migranti e
stagionali, e niente è più leggero, resistente e trasportabile di
una canzone; come poi il movimento dei diritti civili, gli IWW
saranno un singing movement , i cui militanti girano l’America
portandosi in tasca due cose: la tessera che li fa riconoscere come
compagni dovunque vanno, e il canzoniere rosso, The little red
songbook, il cui fine dichiarato era di “fan the flames”,
alimentare le fiamme della rivolta. Joe Hill era un genio della
parodia. Prendeva canzonette di successo, canti popolari, brani
gospel, e rovesciava il senso mantenendo il suono. Prende una canzone
popolare, la storia dell’eroico ferroviere Casey Jones, e lo
trasforma in Casey Jones il crumiro, che si ammazza per far corere i
treni durante uno sciopero, arriva in paradiso dove gli angeli sono
in lotta, fa il crumiro anche lì e finisce a spalare zolfo
all’inferno. Dalle canzoni di chiesa riprende la capacità di
creare comunità, di cantare e improvvisare tutti insieme, e le
trasforma in inni all’unità operaia. “There is power in the
blood of the lamb,” c’è potere nel sangue dell’Agnello,
diventa “there is power in a band of working man,” c’è potere
in una schiera di lavoratori, quando sono uniti, mano nella mano. A
forza di sentire le bande dell’Esercito della Salvezza annunciare
la beatitudine futura nella dolcezza del cielo (“in the sweet bye
and bye”), si inventa una frase diventata familiare anche da noi:
“mangia e prega, campa di niente, e avrai la torta in cielo (“pie
in the sky”)”. Senza Joe Hill, anche un po’ di Gianni
Rodari (La torta in cielo, 1966) non ci sarebbe. Scrive Tom
Morello: “Joe Hill non si limitava a scrivere canzoni contro
l’ingiustizia. Era in prima linea, a rischio della vita, per creare
un mondo migliore e più giusto. Per questo il potere aveva paura di
lui. Per questo l’hanno ucciso”. Le sue canzoni hanno avuto un
impatto così straordinario e duraturo perché nascono da dentro il
proletariato ribelle, intrise del linguaggio che Joe Hill, immigrato
proletario, aveva assorbito sui moli del porto di San Diego, fra i
boscaioli dell’Oregon, nelle miniere di rame, nei saloon della
Bowery, in tutti i posti dove aveva lavorato e lottato. Joe Hill
rimane un’icona della sinistra (c’è anche un film di Bo
Widerberg, Joe Hill, 1971. Peccato che nella versione italiana
le canzoni siano cantate in pedestri traduzioni italiane) sia per le
sue canzoni, sia per l’ ingiustizia simbolica della sua morte.
L’accusa di omicidio per rapina fu sostenuta solo da vaghi indizi;
i testimoni cambiarono versione in vista del processo; gli atti del
processo scomparvero dagli archivi; il governo dello Utah rifiutò di
ascoltare le proteste di tutto il mondo e il messaggio del presidente
Wilson che chiedeva una revisione del processo. Ogni somiglianza con
la storia di Sacco e Vanzetti è storicamente fondata. Nel 1938,
Alfred Hayes ed Earl Robinson lo ricordavano in una canzone subito
resa classica dall’interpretazione di Paul Robeson: “Ho sognato
di vedere Joe Hill stanotte, vivo come e te. Gli dissi, ma Joe, sei
morto da anni; e lui: non sono morto mai. Dovunque i lavoratori sono
in sciopero, in ogni fabbrica e miniera, dove i lavoratori lottano
per i loro diritti, è lì che troverai Joe Hill.” C’è traccia
di questa canzone nel discorso di Tom Joad in Furore di Steinbeck (e
nel film John Ford): “Dove si lotta per dar da mangiare a chi fame,
io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò
lì…” Dal romanzo e dal film, queste parole arrivano a Woody
Guthrie e poi a Bruce Springsteen: “Dove c’è un poliziotto che
picchia qualcuno, dove c’è una lotta contro il sangue e l’odio
nell’aria, cercami e sarò lì…” “Il mio testamento,”
scrisse Joe Hill il giorno prima dell’esecuzione, “è facile da
fare: non c’è niente da spartirsi, perché il muschio non si
attacca a una pietra che rotola( già: a rolling stone). Se
potessi decidere, vorrei che il mio corpo fosse fatto cenere e la
cenere sparsa al vento, che la porterà dove crescono i fiori, e
forse aiuterà un fiore appassito a rinascere.” Al suo funerale,
marciarono in 30.000. Ma forse avevano ragione Hayes e Robinson: Joe
Hill non è morto, il suo fantasma è qui insieme a quello di Tom
Joad. Chissà che ricordarlo e cantarlo non aiuti a far rifiorire
quel movimento operaio per cui è vissuto ed è stato ucciso cento
anni fa.
http://alessandroportelli.blogspot.it/
- 30 dicembre 2015
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