Dopo quasi sette secoli
di predominio, l'orologio meccanico sta cedendo il passo ai
cronometri a stato solido, che si servono di cristalli di quarzo
capaci di vibrare centomila volte al secondo e oltre. E, accanto a
questi sofisticati prodotti della cosiddetta "rivoluzione del
quarzo", hanno fatto la loro comparsa congegni ancor più
complessi - i regolatori atomici -, commisurati al regno dei
nanosecondi e picosecondi, alla meccanica quantistica e non più a
quella celeste. Ma queste straordinarie capacità di stabilire e di
incasellare il tempo anche su distanze quasi impercettibili, o non
più definibili come una frazione di anno solare bensì come un
altissimo numero di rapidissime oscillazioni, risalgono all'
invenzione dell'orologio meccanico, introdotto nell'Europa medievale.
I cronometri che oggi
conosciamo si basano sullo stesso principio oscillatorio-digitale dei
primi esemplari; e il fisico che, entrando nel mondo delle particelle
subatomiche si lascia alle spalle il calcolo dei centesimi e dei
millesimi di secondo, si comporta più o meno allo stesso modo
dell'astronomo medievale, che, volendo misurare il tempo in secondi e
frazioni di secondo ancor prima che esistessero strumenti in grado di
farlo, aveva escogitato delle unità di misura proprie in funzione
dell'analisi teorica. Per l'enorme potenziale di sviluppo tecnologico
che conteneva in sé, l'orologio meccanico fu un'invenzione di
carattere rivoluzionario. Una volta che gli orologiai riuscirono a
farlo funzionare per mezzo di una molla a spirale piuttosto che di
peso, si aprì, come d'incanto, la strada per continui
perfezionamenti, che resero possibile una sempre più alta
precisione: fino al raggiungimento, ai giorni nostri, dell' esattezza
assoluta. Ma l'orologio meccanico, proprio perché si prestava a
essere miniaturizzato al punto da divenire portatile, recava con sé
un' altra grande potenzialità, quella di modificare profondamente le
cadenze della vita quotidiana e, ciò facendo, di sincronizzare le
azioni degli uomini; la diffusione dell'orologio ha instillato la
nozione di puntualità fino a imprimerla e radicarla come qualcosa di
connaturale nei comportamenti individuali, mentre la disciplina del
tempo ha contribuito agli sviluppi della moderna civiltà
industriale. Si è passati dal tempo scandito dagli eventi naturali
(aurora, alba, meriggio, tramonto, tenebra) o dalle devozioni
religiose (richiamate, lungo la giornata, dai differenti rintocchi
delle campane) a un tempo contrassegnato e sempre più segmentato dai
ritmi del lavoro e dei traffici, dagli imperativi categorici della
produttività e del rendimento.
Questo complesso
itinerario è stato ricostruito, attraverso una sequenza multiforme
di scenari e di personaggi, da uno dei più autorevoli storici
inglesi, David S. Landes - già noto in Italia per il saggio ormai
classico Prometeo liberato - in un libro di grande vigore
narrativo (Storia del tempo. L'orologio e la nascita del mondo
moderno, Mondadori, pagg. 476, con 40 illustrazioni, lire
35.000). Come in un trittico - dedicato rispettivamente all'
evoluzione culturale e a quella della mentalità, ai progressi
scientifici e tecnologici, agli aspetti economici - si snodano le
vicende che portarono l'Europa, all'inizio in posizione arretrata
rispetto alla Cina e all' Islam, a fare della cronometria, dell'arte
sempre più raffinata di misurare il tempo, un'espressione
significativa della sua creatività operosa, della sua capacità di
impiegare il sapere e la conoscenza in funzione della ricchezza e
della potenza.
L'opera di Landes (a cui
si presta meglio il titolo originario, Revolution in Time),
più che una ricerca sul concetto del tempo e sui suoi enigmi, è una
analisi d'insieme - la prima con carattere di organicità per la sua
vasta documentazione - sulla nascita e sullo sviluppo dell'orologio,
quale risultato di un prezioso intreccio fra talento, ingegnosità
meccanica ed eleganza. I protagonisti del suo libro sono perciò le
"macchine del tempo" e chi le ha fabbricate. Ci sono tutte
le specie di segnatempo: dagli antichi orologi delle torri e dei
campanili ai più recenti cronometri marini e per le gare olimpiche.
Non mancano i ninnoli nelle versioni più bizzarre e neppure i
congegni più singolari: fra questi ultimi, i "memento mori"
quattrocenteschi, disegnati a forma di teschio (e recanti per inciso
un motto che richiamava il proprietario al fatto che il tempo è
prezioso, se è vero che ogni tic tac lo avvicina alla resa dei conti
finale), o certi pezzi erotici settecenteschi in cui le scene
piccanti erano discretamente celate dietro un piccolo coperchio dai
cardini a molla. Ma l'aspetto più affascinante del racconto di
Landes è la storia di quanti - fabbri, mastri artigiani, tecnici,
fornitori, mercanti, clienti laici ed ecclesiastici con i loro gusti
e le loro esigenze - contribuirono, ognuno per la sua parte, a fare
dell'orologeria non soltanto una fiorente industria ma anche un
capolavoro di scienza applicata per la somma di intuizioni geniali e
di capacità logiche racchiusa in una piccola scatola. D'altra parte,
l'orologeria fu un campo in cui convissero per parecchio tempo
scienza e tecnica, fantasia teoretica e intelligenza pratica. Sino al
secolo scorso gli inglesi continuarono a confezionare alcuni dei
migliori orologi del mondo sia per stile sia per robustezza; ma
furono poi soppiantati - perché troppo attaccati alle loro vecchie
tradizioni - dai fabbricanti svizzeri più duttili e pragmatici, e
quindi più competitivi su un mercato che aveva cominciato ad
assumere dimensioni di massa. Oggi, tuttavia, i vantaggi in abilità
ed esperienza pazientemente accumulati dai maestri orologiai elvetici
non bastano più a fronteggiare la sfida di alcuni produttori
extra-europei come il Giappone e Hong Kong, vale a dire la micidiale
combinazione fra bassi salari e tecnologie d' avanguardia.
“la Repubblica”, 21
dicembre 1984
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