12.2.16

L'orologio meccanico e la rivoluzione nel tempo (Valerio Castronovo)

Dopo quasi sette secoli di predominio, l'orologio meccanico sta cedendo il passo ai cronometri a stato solido, che si servono di cristalli di quarzo capaci di vibrare centomila volte al secondo e oltre. E, accanto a questi sofisticati prodotti della cosiddetta "rivoluzione del quarzo", hanno fatto la loro comparsa congegni ancor più complessi - i regolatori atomici -, commisurati al regno dei nanosecondi e picosecondi, alla meccanica quantistica e non più a quella celeste. Ma queste straordinarie capacità di stabilire e di incasellare il tempo anche su distanze quasi impercettibili, o non più definibili come una frazione di anno solare bensì come un altissimo numero di rapidissime oscillazioni, risalgono all' invenzione dell'orologio meccanico, introdotto nell'Europa medievale.
I cronometri che oggi conosciamo si basano sullo stesso principio oscillatorio-digitale dei primi esemplari; e il fisico che, entrando nel mondo delle particelle subatomiche si lascia alle spalle il calcolo dei centesimi e dei millesimi di secondo, si comporta più o meno allo stesso modo dell'astronomo medievale, che, volendo misurare il tempo in secondi e frazioni di secondo ancor prima che esistessero strumenti in grado di farlo, aveva escogitato delle unità di misura proprie in funzione dell'analisi teorica. Per l'enorme potenziale di sviluppo tecnologico che conteneva in sé, l'orologio meccanico fu un'invenzione di carattere rivoluzionario. Una volta che gli orologiai riuscirono a farlo funzionare per mezzo di una molla a spirale piuttosto che di peso, si aprì, come d'incanto, la strada per continui perfezionamenti, che resero possibile una sempre più alta precisione: fino al raggiungimento, ai giorni nostri, dell' esattezza assoluta. Ma l'orologio meccanico, proprio perché si prestava a essere miniaturizzato al punto da divenire portatile, recava con sé un' altra grande potenzialità, quella di modificare profondamente le cadenze della vita quotidiana e, ciò facendo, di sincronizzare le azioni degli uomini; la diffusione dell'orologio ha instillato la nozione di puntualità fino a imprimerla e radicarla come qualcosa di connaturale nei comportamenti individuali, mentre la disciplina del tempo ha contribuito agli sviluppi della moderna civiltà industriale. Si è passati dal tempo scandito dagli eventi naturali (aurora, alba, meriggio, tramonto, tenebra) o dalle devozioni religiose (richiamate, lungo la giornata, dai differenti rintocchi delle campane) a un tempo contrassegnato e sempre più segmentato dai ritmi del lavoro e dei traffici, dagli imperativi categorici della produttività e del rendimento.
Questo complesso itinerario è stato ricostruito, attraverso una sequenza multiforme di scenari e di personaggi, da uno dei più autorevoli storici inglesi, David S. Landes - già noto in Italia per il saggio ormai classico Prometeo liberato - in un libro di grande vigore narrativo (Storia del tempo. L'orologio e la nascita del mondo moderno, Mondadori, pagg. 476, con 40 illustrazioni, lire 35.000). Come in un trittico - dedicato rispettivamente all' evoluzione culturale e a quella della mentalità, ai progressi scientifici e tecnologici, agli aspetti economici - si snodano le vicende che portarono l'Europa, all'inizio in posizione arretrata rispetto alla Cina e all' Islam, a fare della cronometria, dell'arte sempre più raffinata di misurare il tempo, un'espressione significativa della sua creatività operosa, della sua capacità di impiegare il sapere e la conoscenza in funzione della ricchezza e della potenza.
L'opera di Landes (a cui si presta meglio il titolo originario, Revolution in Time), più che una ricerca sul concetto del tempo e sui suoi enigmi, è una analisi d'insieme - la prima con carattere di organicità per la sua vasta documentazione - sulla nascita e sullo sviluppo dell'orologio, quale risultato di un prezioso intreccio fra talento, ingegnosità meccanica ed eleganza. I protagonisti del suo libro sono perciò le "macchine del tempo" e chi le ha fabbricate. Ci sono tutte le specie di segnatempo: dagli antichi orologi delle torri e dei campanili ai più recenti cronometri marini e per le gare olimpiche. Non mancano i ninnoli nelle versioni più bizzarre e neppure i congegni più singolari: fra questi ultimi, i "memento mori" quattrocenteschi, disegnati a forma di teschio (e recanti per inciso un motto che richiamava il proprietario al fatto che il tempo è prezioso, se è vero che ogni tic tac lo avvicina alla resa dei conti finale), o certi pezzi erotici settecenteschi in cui le scene piccanti erano discretamente celate dietro un piccolo coperchio dai cardini a molla. Ma l'aspetto più affascinante del racconto di Landes è la storia di quanti - fabbri, mastri artigiani, tecnici, fornitori, mercanti, clienti laici ed ecclesiastici con i loro gusti e le loro esigenze - contribuirono, ognuno per la sua parte, a fare dell'orologeria non soltanto una fiorente industria ma anche un capolavoro di scienza applicata per la somma di intuizioni geniali e di capacità logiche racchiusa in una piccola scatola. D'altra parte, l'orologeria fu un campo in cui convissero per parecchio tempo scienza e tecnica, fantasia teoretica e intelligenza pratica. Sino al secolo scorso gli inglesi continuarono a confezionare alcuni dei migliori orologi del mondo sia per stile sia per robustezza; ma furono poi soppiantati - perché troppo attaccati alle loro vecchie tradizioni - dai fabbricanti svizzeri più duttili e pragmatici, e quindi più competitivi su un mercato che aveva cominciato ad assumere dimensioni di massa. Oggi, tuttavia, i vantaggi in abilità ed esperienza pazientemente accumulati dai maestri orologiai elvetici non bastano più a fronteggiare la sfida di alcuni produttori extra-europei come il Giappone e Hong Kong, vale a dire la micidiale combinazione fra bassi salari e tecnologie d' avanguardia.


“la Repubblica”, 21 dicembre 1984

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