Festeggiando i trenta
anni del “manifesto” un vecchio del giornalismo quale sono può
chiedersi quale sia lo stato del giornalismo politico, se sia una
«ridotta Bastiani» ormai ignorata anche da un invasore che ha già
invaso tutto. I tempi in cui ogni fondatore di un movimento o di un
partito politico sentiva la necessità di avere un giornale, di
poterci scrivere nero su bianco i suoi progetti sembrano
lontanissimi. La comunicazione scritta è stata sorpassata da quella
per immagini, e per così dire affogata nel mare magnum di tutto ciò
che sta uccidendola, le persuasioni di massa basate sulle mode, sugli
istinti, sulle ripetizioni, sulla grancassa, su tutto meno che sulla
ragione. E mentre sono qui a rendere testimonianza del valore
politico che il manifesto ha avuto in questi anni non so più bene se
un giornalismo politico così abbia ancora un senso in una società
che lo rifiuta.
Certo restano le
minoranze fedeli, restano i cultori della verità o della sua ricerca
anche nel regno delle false propagande e dei giganteschi imbonimenti,
ma come non sentirsi impotenti, come non sentirsi degli alieni, dei
sopravvissuti? Come occuparsi di politica in un paese in cui la
politica è stata riportata a forza in un limbo di incubi e di favole
che non solo niente hanno a che fare con la ragione ma che la
irridono, la divorano?
Di quale politica ci si
può seriamente occupare se nella campagna elettorale hanno dominato
tesi assurde, ridicole, come «meglio un ricco al governo perché i
ricchi non rubano» quando anche le pietre sanno che un povero al
massimo ruba un pollo mentre i ricchi hanno sempre rubato il potere e
con esso la giustizia, l’impunità e tutto.Come occuparsi di
politica quando non valgono più neppure le ragioni della
sopravvivenza e un Bush rifiuta la difesa dell’inquinamento e i
nostri leader di fronte a uno sviluppo suicida ne chiedono uno più
intenso e senza regole? Di quale politica parlare mentre dilaga un
revisionismo opportunista che nega anche le poche pagine dignitose
della nostra storia? E che giornalismo fare se la nostra professione
è invasa da voltagabbana che si prostituiscono allegramente, come i
jolly dei lager? Mi rendo conto che celebrare un giornale politico
con questo de profundis può apparire come lo sfogo di un vecchio. Ma
può anche essere una testimonianza, come un attestato di stima per
chi continua il discorso della ragione in una società di «clienti
prigionieri».
Bisogna farlo ma bisogna avere una gran forza per continuare a farlo. E ve ne rendo merito.
Bisogna farlo ma bisogna avere una gran forza per continuare a farlo. E ve ne rendo merito.
"il manifesto", 28 aprile 2001
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