Un articolo vecchio, un
“promemoria” tuttora utile. (S.L.L.)
Dagli alla casta! Quanti
titoli cubitali, quante trasmissioni in prima serata, quante ristampe
ad alta tiratura non ha fruttato questo slogan moralizzatore. È
stato ed è un ingrediente della crisi della politica. La quale,
intendiamoci, la rabbia collettiva se la merita tutta. Sarà anche
vero che la crociata anti-casta giova all’antipolitica, ma
l’antipolitica è innanzitutto figlia dei vizi della politica.
Politici incapaci ma onesti, o disonesti ma capaci, sarebbero già
difficili da sopportare: il mix di incapacità e immoralità,
riprovevole sempre, nella sfera pubblica è semplicemente
intollerabile.
Insomma, la campagna ha
un fondamento, come dimostra il fatto che in oltre quattro anni (il
fortunato saggio di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella è del 2007)
la situazione sia peggiorata sotto ogni punto di vista (soldi e
qualità della «classe dirigente»). Ma questa è solo una parte del
problema. Ce ne sono altre due sulle quali curiosamente si sorvola.
Il fatto che una denuncia
sia fondata non dice ancora nulla sulle sue finalità né dimostra
che essa sia svolta correttamente, in modo da colpire tutti i
bersagli (o perlomeno i principali) contro cui dovrebbe rivolgersi. A
Rizzo e Stella e alla pletora dei loro emuli viene spesso
rimproverato di prendersela col parlamento allo scopo di favorire
l’avvento di un sistema presidenzialistico. L’odierna campagna
contro la casta dei parlamentari sarebbe la replica di quella che
vent’anni fa segnò la fine della Prima repubblica sotto lo tsunami
di Tangentopoli. È un processo alle intenzioni? Forse. Sta di fatto
che l’ossessione per il deputato corrotto e per il senatore
cleptomane è sospetta in un Paese in cui i veri stipendi (e vitalizi
e buonuscite) d’oro finiscono in altre tasche, quelle - per
rimanere nel pubblico - di banchieri e alte gerarchie militari, di
diplomatici e alti magistrati, e soprattutto quelle di dirigenti e
amministratori di aziende statali e partecipate. Il caso di Giancarlo
Cimoli è paradigmatico e tutt’altro che unico. Ha scassato
ferrovie e linee aeree guadagnando 3 milioni di euro l’anno e si è
portato a casa 11 milioni di liquidazione. Ma chi se ne ricorda più?
E per quanto sentiremo parlare ancora dei coniugi Guarguaglini-Grossi
e della buonuscita milionaria di lui, sempreché la magistratura non
ci metta prima una pezza?
Si ha l’impressione che
ci siano caste e caste, alcune da esporre al pubblico ludibrio, altre
da proteggere; e che nell’un caso (il parlamento) si tratti di
affossare un sistema, nell’altro (gli oligarchi) l’obiettivo sia,
al contrario, santificare il principio «meritocratico» per cui è
sacrosanto strapagare l’élite, assunto, naturalmente, che sia
tale. Del resto, non è forse questo il modello vincente, il credo,
moralizzatore a senso unico, che da vent’anni ci viene dispensato
dai sedicenti ottimati? Non è questo l’abc dell’azionismo
tecnocratico dei fautori della «democrazia senza partiti», degli
eredi del dispotismo illuminato che, ovviamente, rivendicano per sé
la potestà di giudicare dei Lumi propri e altrui?
Ma le omissioni, nella
crociata an-ticasta, non riguardano soltanto gli alti papaveri delle
amministrazioni pubbliche. Ce n’è un’altra strutturale, ben più
significativa. La denuncia delle degenerazioni castali risparmia in
blocco il settore privato, dove, pure, privilegi, iniquità e
sproporzione retributiva non sono certo meno evidenti. Pensiamo al
mondo dello spettacolo e dello sport, alle libere professioni e alle
semilibere (a cominciare da notai e farmacisti), ai manager di banche
e industrie. E pensiamo ai giornalisti. Il loro stipendio medio non è
stratosferico, a parte il fatto che le redazioni pullulano di precari
sottopagati. Ma poi ci sono le primedonne, quelli che riescono a
sfondare nello show business, e allora altro che diaria e vitalizio,
altro che dolce vita da peone. Solo che di costoro chi potrebbe
occuparsi? Si è mai visto un bambino correre dalla mamma col
barattolo della marmellata in cui ha appena affondato le manine?
Ma - si dirà - che
c’entra il privato col pubblico? Mica i giornalisti o i notai li
paga lo Stato, mica calciatori e capitani d’industria pesano
sull’erario. Questo, in effetti, viene puntualmente risposto, con
una insofferenza sospetta, ogni qualvolta si osi chiedere conto al
Catone di turno. Del pubblico si può parlare, perché riguarda
tutti. Del privato no, perché ciascuno a casa propria fa quello che
gli pare. Peccato che questo discorso, in apparenza incontestabile,
faccia acqua da tutte le parti.
Intanto l’aspirazione a
vivere in una società meno iniqua coinvolge tutti. Che
l’amministratore della Fiat guadagni quanto seimila e cinquecento
operai è di per sé una vergogna indipendentemente dalla fonte del
suo reddito. Poi si dà il caso che il mercato sia un tutt’uno, un
sistema di vasi comunicanti, altrimenti non si potrebbe nemmeno
parlare del Pii di un Paese. Questo significa che se qualcuno
guadagna cifre astronomiche, la cosa non è priva di connessioni col
fatto che tanti altri fanno la fame o quasi. Una politica dei redditi
equa e non generatrice d’inflazione deve regolare l’intera
economia nazionale.
Soprattutto non è vero
che a ripartire (in modo più o meno iniquo) la torta del reddito
nazionale sia il dio mercato, come assicura la teologia dominante.
Prezzi e valori (non solo delle merci, anche delle funzioni sociali)
sono pesantemente condizionati dalla politica, per cui la pretesa che
il privato si autoregoli è alquanto inconsistente. Del resto, che
cos’è oggi, in un Paese come l’Italia il «capitale privato»?
Quanti soldi pubblici finiscono sistematicamente nelle tasche degli
imprenditori privati (compresi gli editori dei grandi giornali, che
peraltro hanno tutti anche svariate attività d’altro genere) sotto
forma di finanziamenti diretti o indiretti (privilegi e scappatoie
fiscali, mancata regolamentazione delle attività finanziarie e
regolazione favorevole del mercato del lavoro)? Come diceva un antico
maestro oggi pressoché dimenticato, l’intervento statale è «una
condizione preliminare di ogni attività economica collettiva», e lo
Stato è esso stesso il «mercato determinato» non essendo altro, a
ben vedere, che l’«espressione politico-giuridica del fatto per
cui una determinata merce (il lavoro) è preliminarmente deprezzata,
è messa in condizioni di inferiorità competitiva paga per tutto il
sistema determinato». Concetti diffìcili, espressi in forme
desuete, e soprattutto tesi controconente, diametralmente opposte al
mainstream. Ma non c’è miglior commento alle manovre compulsive
dei nostri governi e miglior sintesi della ratio politica che
le ispira.
La verità è che la
rappresentazione del settore pubblico e di quello privato come
compartimenti stagni è un mito che fonda un tabù. Ci si rifiuta
stizzosamente di discuterne non solo perché è un cardine
dell’organizzazione sociale esistente, ma anche perché permette al
privato di arrogarsi il confortevole molo del giudice moralizzatore e
di lucrare su di esso senza pagare pegno. È un dispositivo perfetto,
benché riposi su una mistificazione. O forse proprio per questo. In
fondo capita spesso che alla base del moralismo stia la prepotenza.
“il manifesto”, 24
dicembre 2011
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