Comincerò con una
citazione: "Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti,
che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo,
e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perchè gli
ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant' è: con
tutte la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che
mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se
gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l' uscio, o non escano
pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare
aiuto per paura de' morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio,
e proviamo un poco di far paura a loro".
Questa si direbbe una
perfetta situazione di racconto fantastico. Invece è Leopardi: il
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Federico Ruysch
era stato uno scienziato olandese, vissuto tra il XVII e il XVIII
secolo, famoso in tutta Europa perché inventore d' un sistema di
mummificazione dei cavaderi che dava loro l'apparenza della vita.
Leopardi, che aveva letto un Elogio di Ruysch scritto da
Fontenelle, immagina che l'olandese sorprenda una notte i morti che
cantano e conversano. (E qui Leopardi s'appoggia anche su una
tradizione classica: le meraviglie che accompagnano il compiersi
dell' annus magnus o ciclo cosmico, di cui parla Cicerone nel De
natura deorum). Dato che i morti hanno per un quarto d'
ora la facoltà di parlare, Ruysch li interroga sulle sensazioni che
hanno provato al momento del trapasso: dolore? paura? Conformemente
alla filosofia di Leopardi, le mummie spiegano che la morte è la
cessazione d' ogni facoltà di sentire, dunque d' ogni dolore, dunque
è ciò che si può definire un piacere. Eppure, tutti i morti dicono
che fino all' ultimo hanno continuato a sperare di poter vivere
ancora, non fosse che per un' ora o due. Ruysch chiede: "Ma
come, vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo?
Dite: come conosceste d' essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non
m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono
rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura
un'altra volta: torniamocene a letto". Così si chiude il
dialogo.
La data in cui Leopardi
lo scrisse ci rimanda agli anni in cui il romanticismo tedesco stava
diffondendo in Europa il gusto per le storie in cui la paura del
macabro e del soprannaturale si colora d' ironia. E' improbabile che
questa voga avesse raggiunto Leopardi, che non amava i romantici e
non leggeva romanzi o racconti. Pure, il dialogo di Ruysch e le
mummie annuncia alcuni dei temi che torneranno più spesso nella
narrativa fantastica del secolo XIX: il tema dello scienziato che
sfida le leggi della natura finché una notte la sua audacia non
viene messa a dura prova; il tema del mito antico che si rivela
veritiero; il tema del mondo soprannaturale che s'apre per un fugace
momento e subito si richiude. Tutto il resto è tipicamente
leopardiano, dunque orientato in una direzione ben diversa: il
rifiuto d' ogni illusione terrena o ultraterrena, la realtà della
vita vista come dolore senza riscatto.
Ma Leopardi non sarebbe
Leopardi senza la leggerezza dell'ironia sempre presente, senza la
constatazione che la speranza, anche se vana, è l'unico momento
positivo della vita umana, e che l'unico conforto si trova nei tesori
dell'immaginazione e nella dolcezza del linguaggio poetico.
Caratteristiche queste che accomunano Leopardi allo spirito di quei
suoi contemporanei che fondarono la letteratura fantastica: Chamisso,
Hoffmann, Arnim, Eichendorff. E se pensiamo che il pensiero cui
attingevano i narratori fantastici del romanticismo era la nascente
filosofia idealistica tedesca, e che questa aveva come sfondo la
crisi della fiducia di Rousseau nella bontà della natura e la crisi
della fiducia di Voltaire nel progresso della civiltà, vediamo che
Leopardi nasce dalla stessa situazione, anche se la sua risposta è
diversa.
C'è dunque un nodo
storico e filosofico, comune ai romantici e all' antiromantico
Leopardi, che sta alle origini del fantastico moderno, ed è il nodo
che allaccia e insieme contrappone il racconto fantastico quale nasce
in Germania agli inizi del secolo XIX al suo predecessore diretto: il
"conte philosophique" del Secolo dei Lumi. Come il
racconto filosofico era stato l'espressione paradossale della Ragione
illuminista, così il racconto fantastico nasce come sogno a occhi
aperti dell'idealismo filosofico, con la dichiarata intenzione di
rappresentare la realtà del mondo interiore, soggettivo, dando a
esso una dignità pari o maggiore a quella del mondo dell'
oggettività e dei sensi. Racconto filosofico anch'esso, dunque, e
tale resterà fino a oggi, pur attraverso tutti i cambiamenti del
paesaggio intellettuale. Mi sono soffermato su questo punto per
cercare di capire come mai nella letteratura italiana l'elemento
fantastico viene meno (o comunque resta un elemento marginale, senza
esempi di grande rilievo) proprio nell'epoca in cui trionfa nelle
altre letterature europee. Il fantastico "nero" s' impone
nella letteratura tedesca, francese, inglese, russa, ma in Italia
rimane un elemento marginale, non caratterizzato da opere di rilievo;
per esempio l' Italia non ha avuto una rivisitazione romantica del
mondo leggendario popolare, quale quella che la Spagna ha avuto con
Gustavo Adolfo Bècquer. E mi sono soffermato soprattutto su Leopardi
perché in questo grande lirico e prosatore, il più nutrito di
cultura classica e forse per questo il più moderno allora e oggi, il
Leopardi che disprezzava tutti i romanzi tranne il Don Quijote,
esiste un nucleo fantastico che intravediamo in alcuni dei suoi
dialoghi, o in quel frammento poetico che descrive un sogno in cui la
luna si stacca dal cielo e si posa su un prato. Lo stile è quello
degli idilli greci di Teocrito, ma l'invenzione leopardiana - quella
luna che brucia l'erba del prato, e la nicchia vuota che rimane in
cielo - è d'una suggestione visiva straordinaria. È quello il vero
seme da cui poteva nascere il fantastico italiano. Perché il
fantastico, contrariamente a quel che si può credere, richiede mente
lucida, controllo della ragione sull'ispirazione istintiva o
inconscia, disciplina stilistica; richiede di saper nello stesso
tempo distinguere e mescolare finzione e verità, gioco e spavento,
fascinazione e distacco, cioè leggere il mondo su molteplici livelli
e in molteplici linguaggi simultaneamente. Forse occorre risalire più
lontano nella storia della letteratura e vedere come già durante il
secolo XVIII erano stati esplorati tutti i continenti dell'
immaginario, dalle fèeries della Corte del Re Sole alla
traduzione di Galland delle Mille e una notte, alla "gothic
novel" inglese. In Italia le fiabe teatrali di Carlo Gozzi non
segnano un inizio, ma una fine: la fine della tradizione del
meraviglioso che era stata per secoli la linfa più generosa della
letteratura italiana.
Adotto qui la distinzione
propria della critica francese tra il "meraviglioso", che
sarebbe quello dei "contes de fèes" e delle Mille e una
notte, e il "fantastico", che implica una dimensione
interiore, un dubbio sul vedere e sul credere. Ma non sempre la
distinzione è possibile, e in Italia il termine "fantastico"
ha un significato molto più esteso, che include il meraviglioso, il
favoloso, il mitologico. Così i poemi cavallereschi rivisitati dai
poeti del Rinascimento: Pulci, Boiardo, Ariosto, Tasso, e il poema
mitologico barocco del Cavalier Marino. Così i novellieri che hanno
dato forma letteraria alla fiaba popolare: Masuccio Salernitano,
Straparola, e il barocco napoletano Giambattista Basile; così il
Bandello, nel cui sterminato repertorio di storie a effetto
Shakespeare trovò spunto per molti dei suoi drammi.
Possiamo dire che il
meraviglioso è sempre stato presente nella tradizione italiana: il
libro dell' antichità latina la cui lettura non si è mai
interrotta, neanche durante il Medio Evo, è Le metamorfosi di
Ovidio. Questa corrente si direbbe che si fermi nel secolo XVIII, e
che tanto il classicismo quanto il romanticismo italiani nascano
troppo preoccupati di dimostrarsi seri e responsabili per
abbandonarsi alla fantasia.
Quale può essere stato
l'ostacolo? Una eccessiva devozione alla ragione? Al contrario: forse
ce n'era troppo poca. La letteratura fantastica si sostiene sempre -
o quasi - su un disegno razionale, una costruzione di idee, un
pensiero portato alle ultime conseguenze seguendo la sua logica
interna. Oppure l'ostacolo sarà stato una preoccupazione morale
troppo viva? No, per chi esplora la propria coscienza il solo mezzo
d'espressione è quello dei simboli; ed è nella dimensione simbolica
che vive la letteratura fantastica. Il simbolo come immagine d' una
realtà interiore non altrimenti definibile: l'ombra perduta del
Peter Schlemil di Chamisso in quello che è forse il più bel
racconto fantastico che sia mai stato scritto, o le miniere di Falun
nello stupendo racconto di Hoffmann, che fu poi rielaborato per il
teatro da Hofmannsthal.
Potrei citare un solo
libro italiano dell'Ottocento che possa figurare accanto alle più
grandi riuscite del fantastico "nero" internazionale:
"Allora si affacciò alla finestra una bella bambina coi capelli
turchini e il viso bianco come un' immagine di cera, gli occhi chiusi
e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le
labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall' altro mondo:
"In questa casa non c' è nessuno. Sono tutti morti."
"Aprimi almeno tu!" "Sono morta anch' io."
"Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?"
"Aspetto la bara che venga a portarmi via"". Si tratta
d' uno dei libri più famosi della letteratura italiana, un libro
famoso in tutto il mondo, forse il libro che più ha influenzato il
mio mondo immaginario e il mio stile, perchè - e la stessa cosa
credo possano dire la maggior parte dei miei compatrioti - è il
primo libro che ho letto (anzi è il libro che già conoscevo
capitolo per capitolo prima d' imparare a leggere): Pinocchio.
“la Repubblica”, 30
settembre 1984
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