Alessandro Esposito,
pastore valdese in Argentina, nel suo blog su "Micromega" ha pubblicato
questa riflessione, secondo me da leggere. (S.L.L.)
Caravaggio - La conversione di San Paolo |
L’apostolo Paolo, è
risaputo, era un uomo dal carattere forte e spigoloso, che gli ha
procurato, nel tempo, simpatie genuine ed antipatie viscerali. È
chiaro che con questi sentimenti spesso superficiali non si fa
esegesi: bisogna cercare di andare al di là di queste prime
sensazioni, senza ignorarle, ma dimostrandosi disposti a ridiscuterle
e, prima ancora, ad analizzarne, per quanto possibile, le cause. La
mia distanza personale dall’elaborazione teologica dell’apostolo
Paolo è profonda ed intendo suffragarla mediante una breve e per
ovvie ragioni incompleta analisi di alcuni aspetti essenziali del suo
profilo psicologico, entro i limiti (notevoli) in cui è possibile
tratteggiarlo a partire dal suo epistolario. Prima di delineare tale
profilo, desidero svolgere due riflessioni preliminari, determinanti
al fine di chiarire quale sia il modo che ritengo più corretto per
accostarsi alle parole dell’apostolo, spesso gravate dalla pesante
ipoteca di secoli di tradizione e traduzione dogmatica, specie
protestante.
1. Anzitutto,
dell’apostolo Paolo ci sono giunte soltanto alcune lettere
indirizzate alle prime comunità cristiane dell’area greca, che
allora comprendeva anche la costa egea dell’attuale Turchia. In
queste epistole Paolo polemizza spesso con qualcuno di cui non
condivide la predicazione e la teologia che la sostanzia: per cui,
sovente, il suo tono appare un po’ «sopra le righe». Oltretutto,
fatto non trascurabile, noi non conosciamo se non attraverso il
resoconto fornitoci dell’apostolo le posizioni sostenute da quanti
egli critica, spesso con asprezza: il che ci impedisce di avere un
quadro preciso ed obiettivo della situazione da lui descritta in
maniera inevitabilmente parziale, perché prospettica e figlia del
coinvolgimento diretto.
2. In secondo luogo, le
epistole paoline mettono in luce il fatto che l’apostolo visse,
come è naturale che sia, diverse metamorfosi nella sua fede, la
quale, non dovremmo mai dimenticarlo, è esperienza viva e dunque
mutevole, non acquisizione di contenuti invariabili.
In tale evoluzione, un
elemento rimane costante nell’elaborazione teologica svolta
dall’apostolo: la lieta notizia, traduzione letterale del termine
evangelo, è Gesù, la sua persona. In Paolo non troviamo mai
l’annuncio di un Regno di pace e di giustizia, centrale
nell’annuncio del profeta di Nazareth: in Paolo la buona novella è
Gesù stesso. Questo aspetto innovativo e per molti aspetti
nevralgico, è divenuto, prima in Paolo e poi nelle chiese (in
particolare protestanti) univoco: non si annuncia più «Regno e la
sua giustizia» (che secondo Gesù erano l’unica cosa da cercare,
come ricorda Matteo nel «discorso della montagna» - 6:33 -), ma la
persona di Gesù e la sua portata salvifica.
Paolo, interiormente
rigenerato dall’esperienza dell’incontro con il risorto narrata
nel celebre passo del libro degli Atti degli Apostoli (Atti 22:
6-10), ne farà comprensibilmente il centro del suo annuncio. Peccato
che l’assolutizzazione del suo vissuto lo porterà a maturare una
concezione della fede che a tratti, nelle sue lettere, si rivela
estremamente rigida. Non di rado, infatti, Paolo demonizza i suoi
avversari, scaglia contro di loro anatemi ed arriva persino a
chiamarli «cani» (Filippesi 3:2).
Ecco perché, in ultima
istanza, nutro il sospetto che l’apostolo, pur avendo abbandonato
il giudaismo ortodosso più intransigente, ne ha mantenuto per molti
versi la logica. In questo, credo, Paolo non ha fatto onestamente i
conti con il proprio passato: ha creduto che la conversione
sperimentata con ardore ed entusiasmo avesse debellato del tutto il
suo vecchio io, la sua precedente identità. È un’idea ancora oggi
assi diffusa negli ambienti fondamentalisti: la conversione consente
di chiudere i conti con il proprio passato. Peccato, però, che sia
del tutto illusorio credere che ciò che ha caratterizzato per anni
la mia mentalità ed il mio agire si possa cancellare con un colpo di
spugna. Ciò che sono stato per lungo tempo, difatti, non può
scomparire come d’incanto. Paolo ha un passato da guardiano della
fede, inflessibile d irreprensibile: parte di questo suo modo di
credere e di pensare lo trasporterà, suo malgrado, in una fede nuova
che veste abiti vecchi. Nuovo è il contenuto del suo annuncio,
vecchi risultano i toni e le modalità attraverso cui l’apostolo lo
incarna.
Paolo aveva
interiorizzato una rigidità che manterrà invariata: la sua
intransigenza, da convertito, è la stessa che caratterizzava la sua
fede giudaica. E, come spesso accade, sarà proprio la sua antica
appartenenza religiosa quella contro cui l’apostolo si scaglierà
con maggiore veemenza.
L’apostolo crederà di
trovarsi al di là di ciò che era stato: ma l’identità è un
processo di anni, che finisce per contraddistinguerci senza che sia
possibile lasciarla alle spalle con una svolta, per quanto radicale.
Ecco perché, in definitiva, sono persuaso del fatto che il Paolo
«trasformato» continui, per certi aspetti, ad essere estremamente
simile al Paolo rigoroso e zelante nell’interpretazione legalistica
del giudaismo.
Micromega, 2 febbraio
2016
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