Un bell'articolo, uno tra
i più stimolanti tra quelli scritti in
morte dello scrittore siciliano. (S.L.L.)
“Si può scrivere solo
di quello che si conosce molto bene o bene. Parlo anche per me, non
sarei capace di ambientare una storia al Valentino di Torino”, dice
Gesualdo Bufalino. In questo senso Sciascia è stato inevitabilmente
uno scrittore siciliano. Ha passato a Racalmuto l'infanzia e
l'adolescenza, gli anni che contano. È andato a scuola con i figli
dei contadini e dei solfatari. È stato toccato, e influenzato,
almeno all'inizio, dalla cultura della solfara, a cui hanno
appartenuto scrittori come Pirandello, Nino Savarese, Francesco Lanza
in un mondo contadino chiuso dove i solfatari erano i mobili, i
diversi, i rissosi e gli ubriaconi. La vita di Racalmuto gli sembrava
un ricco teatro a cui attingere, un microcosmo che rifletteva una
realtà molto più vasta, così come la realtà della Sicilia gli
sembrerà una metafora della vita non solo italiana.
Poi le sue letture e i
suoi interessi si sono allargati, è passato alla letteratura
francese, a quella spagnola. Ci sono numerosi sicilianismi e forme
dialettali nel suo primo libro, Le parrocchie di Regalpetra e
pochissimi o quasi nessuno in Todo modo. Ma il fondo
siciliano-paesano è rimasto e a questo qualche volta Leonardo è
tornato, con piccoli saggi, divertimenti come Kermesse, un
alfabeto di locuzioni locali.
Vincenzo Consolo parla,
più in generale, di un modo di essere scrittori siciliani: “Una
letteratura più realistica che fantastica, più attenta di altre al
concreto e alla società, che non divaga, e che nei suoi migliori
esempi, come accade in Sciascia, è contro. Naturalmente ci sono
delle eccezioni, D' Arrigo, ad esempio. Si potrebbero individuare due
o più filoni: gli scrittori della Sicilia occidentale, immersi nella
storia e gli scrittori della Sicilia orientale, portati maggiormente
verso temi esistenziali. La letteratura della Sicilia occidentale,
alla quale Sciascia appartiene, è anche una letteratura che si
ritrova negli esterni, nelle piazze. La prima parte degli scritti di
Pirandello si svolge tutta quanta - l'ha fatto rilevare Giovanni
Macchia - nella piazza di Agrigento. Poi ha trasformato la piazza in
un ambiente borghese, chiuso, che però risente della sua origine.
Anche in Leonardo c'è la piazza: la piazza dove il potere esercita
la sua violenza”.
Alberto Moravia ha
scritto che Sciascia è stato un illuminista alla rovescia: invece di
andare dal mistero alla razionalità e alla verità, si è mosso
dalla verità e dalla razionalità verso il mistero (in questo
consisterebbe la sua sicilianità). Ma Consolo è d' accordo solo a
metà: “Il mistero non sta nello scrittore, ma nella società, è
oggettivo, non soggettivo. Leonardo aveva fortissimo il senso del
diritto, che vedeva continuamente violato da due poteri: quello della
mafia, ma anche quello dello Stato. Per lui la seconda violazione
costituiva un enigma, che non c'era spirito illuministico che potesse
risolvere e spiegare. Forse, in fondo, Leonardo era un utopista:
credeva possibile, ma solo all'inizio, e teoricamente, che l'uomo
potesse convivere con il potere. Perché in realtà si tratta di una
non convivenza, di uno scontro impari, da cui derivano tutte le
miserie dell'individuo”.
“Bisogna però stare
attenti - dicono Bufalino e Consolo - a non spingere il concetto di
sicilianità oltre il necessario, a non farne una formula di comodo,
secondo una stretta geografia letteraria”. Gli scrittori siciliani
hanno una loro inafferrabilità perché il loro pensiero può passare
da un estremo all'altro, attraverso una serie di antinomie, ricorda
Bufalino. Ed è l'antinomia tra ragione e mito, come in Pirandello,
in cui il teatro della ragione approda poi al mito dei Giganti
della Montagna. L'antinomia tra luce e lutto, tra spinta
vitalistica e voluttà mortuaria. L'antinomia tra la solitudine, il
desiderio di rinchiudersi e di non fidarsi e la spinta ad esporsi e a
mostrarsi. L'antinomia tra ragione e mistero, com'era in Sciascia:
lui andava da un polo all'altro e non sapeva risolversi.
Anche nei riguardi della
donna Bufalino trova, negli scrittori siciliani, atteggiamenti
opposti: “Nei libri di Brancati è testimoniata l'instabilità
dell'uomo siciliano verso la donna, l'insicurezza, il tormento, che
portano ancora oggi all'ossessione, al parlare sempre dell'amore,
della sessualità e poi allo sfinimento e al delirio, come ad
esempio, in Paolo il caldo. Nelle opere di Sciascia la donna è
quasi assente o sullo sfondo: solo una volta, in una pagina di
Candido, si fa un esplicito accenno ad un rapporto sessuale.
Leonardo ha sempre avuto come una sorta di delicato distacco
sull'argomento. Non c'erano in lui simpatie per allusioni,
insinuazioni di genere sessuale o amoroso e aveva anche un rispetto
per quello che giudicava un riserbo naturale. I suoi interessi
stavano altrove. Un'eccezione a questo riserbo, negli ultimi anni, è
stata la prefazione ad un manoscritto erotico dannunziano, che era
inedito. Ma qui credo che abbia prevalso la curiosità da letterato e
da bibliofilo.
Bufalino e Consolo sono
d'accordo nel trovare un ultimo, finale elemento di sicilianità in
tutti gli scrittori dell'isola e nel loro amico Sciascia. E' il
misurarsi con una lingua straniera, l'italiano dice Bufalino. Come
Conrad, che era polacco e ha maneggiato l'inglese lavorandolo al
tornio, raggiungendo risultati straordinari e assolutamente insoliti
per la lingua inglese, così noi siamo stati costretti ad apprendere
l'italiano e ad adoperarlo per fini letterari: una delle patologie
dell'insularità. Aggiunge Consolo: “Questo è successo anche per
altri scrittori geograficamente marginali, come Svevo. Ma in Sicilia
è stato più evidente che altrove. Leonardo scelse una lingua media,
che apparentemente sembrava semplice, ma che invece nascondeva una
grande ricchezza e complessità: il rovello. E aveva, tra le altre
caratteristiche, una qualità, che lo apparentava a Lampedusa:
l'adesione della scrittura alle cose, la perfetta rispondenza tra le
parole e i fatti che andava raccontando”.
“la Repubblica”, 22
novembre 1989
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