21.2.16

Sicilianità di Sciascia. Il mistero e la ragione (Stefano Malatesta)

Un bell'articolo, uno tra i più stimolanti tra quelli scritti in morte dello scrittore siciliano. (S.L.L.)

“Si può scrivere solo di quello che si conosce molto bene o bene. Parlo anche per me, non sarei capace di ambientare una storia al Valentino di Torino”, dice Gesualdo Bufalino. In questo senso Sciascia è stato inevitabilmente uno scrittore siciliano. Ha passato a Racalmuto l'infanzia e l'adolescenza, gli anni che contano. È andato a scuola con i figli dei contadini e dei solfatari. È stato toccato, e influenzato, almeno all'inizio, dalla cultura della solfara, a cui hanno appartenuto scrittori come Pirandello, Nino Savarese, Francesco Lanza in un mondo contadino chiuso dove i solfatari erano i mobili, i diversi, i rissosi e gli ubriaconi. La vita di Racalmuto gli sembrava un ricco teatro a cui attingere, un microcosmo che rifletteva una realtà molto più vasta, così come la realtà della Sicilia gli sembrerà una metafora della vita non solo italiana.
Poi le sue letture e i suoi interessi si sono allargati, è passato alla letteratura francese, a quella spagnola. Ci sono numerosi sicilianismi e forme dialettali nel suo primo libro, Le parrocchie di Regalpetra e pochissimi o quasi nessuno in Todo modo. Ma il fondo siciliano-paesano è rimasto e a questo qualche volta Leonardo è tornato, con piccoli saggi, divertimenti come Kermesse, un alfabeto di locuzioni locali.
Vincenzo Consolo parla, più in generale, di un modo di essere scrittori siciliani: “Una letteratura più realistica che fantastica, più attenta di altre al concreto e alla società, che non divaga, e che nei suoi migliori esempi, come accade in Sciascia, è contro. Naturalmente ci sono delle eccezioni, D' Arrigo, ad esempio. Si potrebbero individuare due o più filoni: gli scrittori della Sicilia occidentale, immersi nella storia e gli scrittori della Sicilia orientale, portati maggiormente verso temi esistenziali. La letteratura della Sicilia occidentale, alla quale Sciascia appartiene, è anche una letteratura che si ritrova negli esterni, nelle piazze. La prima parte degli scritti di Pirandello si svolge tutta quanta - l'ha fatto rilevare Giovanni Macchia - nella piazza di Agrigento. Poi ha trasformato la piazza in un ambiente borghese, chiuso, che però risente della sua origine. Anche in Leonardo c'è la piazza: la piazza dove il potere esercita la sua violenza”.
Alberto Moravia ha scritto che Sciascia è stato un illuminista alla rovescia: invece di andare dal mistero alla razionalità e alla verità, si è mosso dalla verità e dalla razionalità verso il mistero (in questo consisterebbe la sua sicilianità). Ma Consolo è d' accordo solo a metà: “Il mistero non sta nello scrittore, ma nella società, è oggettivo, non soggettivo. Leonardo aveva fortissimo il senso del diritto, che vedeva continuamente violato da due poteri: quello della mafia, ma anche quello dello Stato. Per lui la seconda violazione costituiva un enigma, che non c'era spirito illuministico che potesse risolvere e spiegare. Forse, in fondo, Leonardo era un utopista: credeva possibile, ma solo all'inizio, e teoricamente, che l'uomo potesse convivere con il potere. Perché in realtà si tratta di una non convivenza, di uno scontro impari, da cui derivano tutte le miserie dell'individuo”.
“Bisogna però stare attenti - dicono Bufalino e Consolo - a non spingere il concetto di sicilianità oltre il necessario, a non farne una formula di comodo, secondo una stretta geografia letteraria”. Gli scrittori siciliani hanno una loro inafferrabilità perché il loro pensiero può passare da un estremo all'altro, attraverso una serie di antinomie, ricorda Bufalino. Ed è l'antinomia tra ragione e mito, come in Pirandello, in cui il teatro della ragione approda poi al mito dei Giganti della Montagna. L'antinomia tra luce e lutto, tra spinta vitalistica e voluttà mortuaria. L'antinomia tra la solitudine, il desiderio di rinchiudersi e di non fidarsi e la spinta ad esporsi e a mostrarsi. L'antinomia tra ragione e mistero, com'era in Sciascia: lui andava da un polo all'altro e non sapeva risolversi.
Anche nei riguardi della donna Bufalino trova, negli scrittori siciliani, atteggiamenti opposti: “Nei libri di Brancati è testimoniata l'instabilità dell'uomo siciliano verso la donna, l'insicurezza, il tormento, che portano ancora oggi all'ossessione, al parlare sempre dell'amore, della sessualità e poi allo sfinimento e al delirio, come ad esempio, in Paolo il caldo. Nelle opere di Sciascia la donna è quasi assente o sullo sfondo: solo una volta, in una pagina di Candido, si fa un esplicito accenno ad un rapporto sessuale. Leonardo ha sempre avuto come una sorta di delicato distacco sull'argomento. Non c'erano in lui simpatie per allusioni, insinuazioni di genere sessuale o amoroso e aveva anche un rispetto per quello che giudicava un riserbo naturale. I suoi interessi stavano altrove. Un'eccezione a questo riserbo, negli ultimi anni, è stata la prefazione ad un manoscritto erotico dannunziano, che era inedito. Ma qui credo che abbia prevalso la curiosità da letterato e da bibliofilo.
Bufalino e Consolo sono d'accordo nel trovare un ultimo, finale elemento di sicilianità in tutti gli scrittori dell'isola e nel loro amico Sciascia. E' il misurarsi con una lingua straniera, l'italiano dice Bufalino. Come Conrad, che era polacco e ha maneggiato l'inglese lavorandolo al tornio, raggiungendo risultati straordinari e assolutamente insoliti per la lingua inglese, così noi siamo stati costretti ad apprendere l'italiano e ad adoperarlo per fini letterari: una delle patologie dell'insularità. Aggiunge Consolo: “Questo è successo anche per altri scrittori geograficamente marginali, come Svevo. Ma in Sicilia è stato più evidente che altrove. Leonardo scelse una lingua media, che apparentemente sembrava semplice, ma che invece nascondeva una grande ricchezza e complessità: il rovello. E aveva, tra le altre caratteristiche, una qualità, che lo apparentava a Lampedusa: l'adesione della scrittura alle cose, la perfetta rispondenza tra le parole e i fatti che andava raccontando”.


“la Repubblica”, 22 novembre 1989  

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