6.2.16

Giornalismo. Il partigiano Giorgio Bocca (Marco Revelli)

Dal “manifesto” riprendo l'articolo scritto da Marco Revelli in occasione della morte di Giorgio Bocca cui aggiungo, a mo' di appendice, il profilo biografico del grande giornalista pubblicato da quel quotidiano. (S.L.L.)

Partigiano e giornalista. Negli ultimi tempi, poi, «giornalista partigiano» tout court, in lotta aperta contro un revisionismo storico che marciava di conserva con il degrado morale e politico del Paese. Con Giorgio Bocca se ne va uno degli ultimi testimoni partecipanti di quella stagione alta della nostra vicenda nazionale da cui era uscita, selezionata nel clima rarefatto della montagna, una generazione di italiani diversi, segnati da un marchio indelebile, che avevano trasferito nella propria professione e nel proprio stile di essere cittadini quel loro modo «giusto» di essere stati nella Storia.
Giorgio, cuneese di nascita e montanaro di natura, in montagna c’era salito subito, d’istinto, il 12 settembre del 1943 quando, con un piccolo gruppo di ufficiali degli alpini di fresca nomina aveva raggiunto Frise, una piccola frazione sui contrafforti della Valle Grana, a un’ora di cammino da un’altra borgata abbandonata, Paraloup, dove negli stessi giorni si stava insediando il gruppo guidato da Duccio Galimberti e Livio Bianco. Nacque allora la Banda Italia libera, la prima formazione partigiana italiana inquadrata nelle file di «Giustizia e Libertà». E da combattente «GL» Bocca si farà tutti i venti mesi di quella guerra spietata, due inverni durissimi e un’estate feroce, di rastrellamenti, di fame e di marce estenuanti: il suo personale e collettivo «romanzo di formazione». Appartiene dunque a quella «classe di leva» - la stessa di mio padre, la cosiddetta «gioventù del littorio» - per la quale la tragedia della guerra segna uno spartiacque radicale, che spezza la biografia, e nella sconvolgente presa di coscienza della vera natura del fascismo ne interrompe irrimediabilmente il filo di continuità - sociale, culturale e famigliare -, dividendo la vita in un «prima» e in un «dopo» inconfrontabili. Producendo in senso proprio un «nuovo inizio», che volenti o nolenti sarà per tutti quelli che erano passati per quell’esperienza un carattere impegnativo anche quando, deposte le armi, dovranno reinventarsi una «vita civile».
Per Bocca quel congedo significherà la diaspora, il passaggio dalla periferia piemontese alla «capitale» Torino, apprendista alla «Stampa», e poi a Milano, al «Giorno» di Italo Pietra. Ma il tono un po’ ringhioso del «provinciale» e l’aria ribelle della montagna non l’abbandoneranno mai. Si porterà sempre dietro il tratto rustico, talvolta scostante, l’approccio rude al reale, persino cinico in qualche aspetto, e insieme il senso di appartenere comunque, per vicenda biografica e per etica acquisita, a un’«altra Italia», diversa da quella prevalente, servile, unanimista e conformista. Un «anti-italiano», nell’Italia che dopo la stagione dei fucili si accomodava, compiacente, nei propri antichi vizi.
Non amava i comunisti: li temeva per la brutalità e la spregiudicatezza dell’ideologia, li criticava per l’eccesso di tatticismo e disponibilità al compromesso (il libro su Togliatti è un testo dichiarata-mente impietoso). Ma sapeva benissimo, per averli avuto a fianco nel momento del combattimento, che erano abissalmente diversi e infinitamente migliori di qualsiasi fascista (fosse anche uno in «buona fede»), e a quel giudizio si atterrà sempre, anche dopo la «caduta del muro». Conosceva perfettamente la condizione operaia, per aver bivaccato infinite notti a fianco dei giovani lavoratori arrivati in montagna dalla periferia torinese. Ma non nascondeva il fascino esercitato su di lui dalle promesse del neo-capitalismo, oggetto di una sua pionieristica inchiesta sui Giovani leoni della nuova industria italiana negli anni del miracolo economico.
Era un esploratore per vocazione e per naturale inclinazione, ciò che ne faceva, insieme alla scrittura asciutta ed essenziale da vecchio Piemonte, il grande giornalista che è stato, capace di scandagliare i caratteri dei propri interlocutori, ma soprattutto curioso fino all’estremo di tutto ciò che si muove negli interstizi del sociale, siano gli scostamenti nel costume o i segni dell’innovazione, le nuove forme della produzione o i processi sommersi del conflitto. Buona parte dei suoi 61 volumi - dal primo, Partigiani della montagna, pubblicato da un piccolo editore
cuneese già nel 45, all’ultimo, Grazie no, d’imminente pubblicazione da Feltrinelli - testimonia di questo furioso bisogno di «vedere», sia che si tratti de La scoperta dell’Italia trasformata dal boom dei primi anni Sessanta (Laterza 1963) o dell’incipiente malessere della seconda metà degli anni Settanta (L'Italia l'e malada, L’Espresso 1977), del primo emergere di un razzismo fino ad allora sconosciuto (Gli italiani sono razzisti, Garzanti 1986) o dello spaesamento del dopo-Tangentopoli (Il viaggiatore spaesato, Mondadori 1996)... Testi a volte discutibili, e aspramente discussi (penso al reportage dal Sud, visto con l’occhio del Nord), ma tutti frutto di un lavoro diretto di scavo. E di una volontà di capire che faceva in qualche modo da contraltare (e da compensazione) alla coriacea tendenza a non vedere e non capire della stragrande maggioranza della classe politica.
Era anche un giornalista «fedele». Al di sotto della scorza burbera e scostante, nutriva fedeltà profonde, come dimostra il suo rapporto con «Repubblica», iniziato fin dalla fondazione e mai «tradito». O il suo ritornare, ciclico, alla Resistenza come alla terra delle origini, mai dimenticata Si spiega così, con questo intreccio tra fedeltà e curiosità, tra continuità e innovazione, il pessimismo - sacrosanto - degli ultimi titoli: Voglio scendere! (1998), Il secolo sbagliato (1999), Pandemonio. Il miraggio della new economy (2000), Il dio denaro. Ricchezza per pochi, povertà per molti (2001), Piccolo Cesare (2002), Basso impero (2003), Annus Horribilis (2010)...
Il fatto è che per il partigiano Bocca - come per tanta parte dei suoi antichi compagni del Partito d’Azione, come per Bobbio, come per Galante Garrone, come per Leo Valiani - questa Italia l’Italia della fine del Novecento e del nuovo secolo - era diventata insopportabile.
Dal berlusconismo lo separava un’antitesi di stile, prima che politica. Nutriva per Berlusconi un’avversione di pelle, istintiva, morale e umorale. In lui, l’antitaliano Bocca vedeva la sintesi dei peggiori vizi degli italiani (la “sintesi di tutte le nostre antitesi”, avrebbe detto Piero Gobetti): quelli che ci erano costati la vergogna del fascismo e la tragedia di una guerra perduta. Per questo la sua parola ci mancherà enormemente, in questa difficile transizione.
È morto domenica a Milano, dopo una breve malattia, Giorgio Bocca. Aveva 91 anni ed era un esploratore per vocazione, caratteristica che ne ha fatto un grande cronista e scrittore. Oggi i funerali in forma privata.

Profilo biografico di Giorgio Bocca
Un giornalista dell’altra Italia
Il giornalista partigiano, o meglio il partigiano giornalista. L’antitaliano (dal nome della rubrica che settimanalmente teneva sull’Espresso), il provinciale (dal titolo di un suo libro), l’antiberlusconiano e antifascista (che considerava la stessa cosa). Sono solo alcune delle sfaccettature pubbliche che la figura di Giorgio Bocca aveva assunto negli anni.
Il giornalista, indubbiamente una delle migliori penne del Novecento italiano, è scomparso domenica, all’età di 91 anni, nella sua casa milanese, dopo una breve malattia. Ieri a casa di Bocca è stato un via vai incessante di gente comune e nomi noti del giornalismo e non solo. La famiglia ha ricevuto e salutato tutti.
I funerali si svolgeranno questa mattina alle 11 nella basilica di San Vittore al Corpo a Milano (diretta sul Tgl e su Rainews, con servizi e testimonianze). Poi il corpo di Bocca sarà cremato e sepolto a La Salle, in Valle d’Aosta, «vicino alle montagne che tanto amava e dove aveva trascorso tante ore felici», ha spiegato la figlia Nicoletta.
Nato a Cuneo da una famiglia della piccola borghesia piemontese nel 1920, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, appassionato di sci agonistico - e perciò noto nell'ambiente del Guf (la gioventù universitaria fascista) cuneese - Bocca iniziò a scrivere già a metà degli anni '30, su periodici locali e poi sul settimanale cuneese “La Provincia Granda”. Durante la guerra si arruolò come allievo ufficiale di complemento fra gli alpini e dopo l'armistizio fu tra i fondatori delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà: «L'ho fatto per pagarmi il biglietto di ritorno alla democrazia», spiegava.
Riprese allora l'attività giornalistica, scrivendo per il quotidiano di Gl, poi per la “Gazzetta del Popolo”, per “l'Europeo” e per “Il Giorno”. Nel 1976 fu tra i fondatori, con Eugenio Scalfari, del quotidiano “la Repubblica”, con cui ha continuato a collaborare fino a ieri (l’ultimo articolo risale alla fine di settembre scorso). In tanti l’hanno ricordato ieri, da Scalfari appunto («perdiamo molto con la scomparsa di Giorgio, perde il giornale, perde il Paese. È stato un combattente di carattere, un uomo che non ha mai badato ad altro che a cercare la verità e quando era turpe, come spesso è, la denunciava senza badare a rischi o convenienze. Per quanto mi riguarda perdo un fratello maggiore e questo mi colpisce molto») a Roberto Saviano («Addio a Giorgio Bocca, partigiano»,
ha scritto su Twitter), diventato un suo pupillo dai tempi di Napoli siamo noi, libro che gli attirò addosso elogi e critiche.
Con “il manifesto” il rapporto era di reciproca stima anche se spesso è stato costellato di polemiche, a cominciare dal giudizio sugli anni ’70. Avevano poi fatto discutere alcuni suoi «flirt», con il capitalismo (ma negli ultimi anni è stato un accanito detrattore del neoliberismo) e con il primo leghismo (anche in questo caso non durò a lungo). Ma sul berlusconismo non aveva mai sbandato, così come nel giudizio su alcuni aspetti del carattere degli italiani. Sul nostro giornale aveva anche in qualche occasione scritto (in queste pagine riproduciamo l’articolo in occasione del trentennale del manifesto in cui fa un «de profundis» del giornalismo politico, in realtà per elogiare chi come noi si ostina a non voler mollare. Ci verrebbe da aggiungere: come lui).
Nei 2005 in un articolo sul “Venerdì di Repubblica” si era anche espresso contro il treno ad alta velocità Torino-Lione, schierandosi dalla parte dei NoTav: «Se vi sento dire che la Tav, l'alta velocità, è indispensabile, necessaria al progresso, tiro su dal pozzo il Thompson che ci ho lasciato dalla guerra partigiana. Perché d'inevitabile in questo stolto mondo c'è solo l'incapacità della specie a controlla re la sua conigliesca demografia, le sue moltiplicazioni insensate».
Così sintetizzava la sua biografia: «Sono uscito dal fascismo, sono entrato nella Resistenza a capo di una divisione partigiana di “Giustizia e libertà”e poi, pur essendo stato vicino al Psi, non mi sono più iscritto ad alcun partito: non ho più voluto avere uno che decidesse sulla mia testa». Alle elezioni del 2008 non aveva neanche votato: «Mi ha stufato la politica com'è in Italia». Però non aveva mai smesso di svelare il fascismo di settori della politica e della società italiana, e aveva rotto con Giampaolo Pansa per via del revisionismo storico di quest’ultimo. Insomma, partigiano fino alla fine, come ha ricordato l’Anpi di Milano: «Lo ricorderemo sempre tra le figure di spicco del movimento partigiano e per essere rimasto sempre coerente a quella sua fondamentale scelta di campo per la libertà e la democrazia maturata durante la Resistenza».

"il manifesto", 27 dicembre 2011

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