Riprendo qui un ampio
stralcio da un articolo sulla condizione sociale dei giovani laureati
da pagina 99. (S.L.L.)
«Adesso sono contenta»,
prosegue Valeria Valentini, «mi piace la vita e il lavoro che
faccio, ho un po’ di tempo per i miei bambini. Ma è vero: non è
quello per cui ho studiato, per il lavoro che faccio mi bastava il
diploma di laurea». E a Genova, dove Valeria vive e ha famiglia,
trovare oggi un posto più in linea con i suoi studi non è facile:
«Mi aveva contattato una ditta farmaceutica, appena laureata. Mi
davano 700 euro per sei mesi, al colloquio invece di chiedermi quello
che sapevo fare mi hanno domandato se sarei venuta al lavoro anche
quando avevo le mestruazioni. Ho rinunciato, ora quella ditta ho
saputo che è fallita».
Che fine fanno i sogni e
le ambizioni dei giovani italiani usciti dalle università? Che vita
fa chi decide di restare? Si parla molto di fuga dei cervelli, di chi
ha scelto di prendere la valigia per seguire le sue aspirazioni in un
altro Paese. Molto poco, invece, di chi resta, per scelta o per
necessità, e viene considerato fortunato perché un lavoro,
comunque, l’ha trovato, anche se non è quello per cui ha studiato.
Stretti tra disoccupati ed espatriati, gli over-skilled italiani, i
“troppo formati”, sono un popolo in gran parte ignorato. Non sono
un’emergenza, non trovano spazio sui giornali. Ma sono figli di
un’Italia che spreca anno dopo anno le sue migliori energie in
occupazioni di routine, a volte squalificanti, spesso mal pagate.
Secondo un recente studio
dell’Isfol, il 35,6% dei laureati ritiene di avere una formazione
più alta di quella necessaria per svolgere i compiti che gli sono
assegnati. Il dato, ovviamente, può risentire di una sovrastima
delle proprie capacità. Ma se guardiamo a parametri più oggettivi –
esiste un indice che verifica la corrispondenza tra titolo di studio
e professione – rimane comunque un 20,9% di over-skilling.
Peggio fanno solo greci, lituani, spagnoli, portoghesi e irlandesi.
Nella fascia 25-34 anni, questo dato cresce al 30,4% contro il 26,2%
dei francesi, il 26,5% dei britannici, il 17,8% dei tedeschi. Ma
l’Italia, tra i Paesi Ocse, ha anche il tasso più basso di
laureati nella fascia 25-34 anni, il 34%: ci sono insomma pochi
laureati e quei pochi sono più insoddisfatti dei loro colleghi
stranieri delle opportunità che i loro studi hanno aperto loro.
Un problema che affligge
soprattutto le donne. La statistica fotografa impietosamente il
nostro tasso di occupazione femminile – al 46,8%, contro una media
Ue del 59,5% –, ma ha più difficoltà a mostrare le rinunce a cui
le donne sono costrette. È la storia di Simona Gay, 38 anni,
laureata in fisica a pieni voti nel 2002 (un anno fuori corso) e
oggi, dopo molti cambi di lavoro, co.co.co. in un istituto di ricerca
in campo medico a Milano, dove segue due studi clinici con mansioni
più organizzative che scientifiche, con un impegno di 20 ore a
settimana e un salario intorno ai mille euro. «Il mio primo lavoro»,
racconta, «era all’ospedale San Gerardo di Monza. Cercavano un
fisico, ma ben presto mi sono accorta che, nella pratica, non avrei
svolto compiti in linea con quanto avevo studiato». L’anno dopo,
così, Simona vince un assegno di ricerca e un dottorato e
intraprende la carriera scientifica. Si sposa, ha una bambina.
Dovrebbe essere possibile continuare a studiare per il dottorato e
nel frattempo occuparsi della figlia, ma non è così. «All’epoca
era prevista solo la maternità obbligatoria, quella facoltativa non
era concessa. Non avevo flessibilità di orari, la professoressa con
cui lavoravo non aveva famiglia, lavorava 12 ore al giorno e si
aspettava che anche gli altri facessero lo stesso».
Simona, così, lascia a
un passo dal dottorato per un altro lavoro in un’azienda
biomedicale. Inizia una lunga battaglia, sempre nel tentativo di
tenere assieme lavoro e vita privata, nel frattempo ha altri due
bambini. «All’inizio c’erano posti che mi erano preclusi perché
avevo già una bambina e a loro dire non garantivo di potermi
dedicare, come altri giovani (perché ai tempi ero giovane anche io)
a quei tipi di lavori. Così ho iniziato a ricoprire ruoli
formalmente più adatti a una madre, perché per esempio non
viaggiavo molto, ma erano richiesti orari impossibili (certo, molte
più delle 7 ore e 30 del contratto chimico farmaceutico) e costante
focus sulle attività, non esisteva non leggere le e-mail in vacanza
o essere pronta nel weekend a affrontare richieste estemporanee, e in
altri ancora erano di più i soldi che spendevo per asilo nido e baby
sitter di quello che guadagnavo». Oggi, ha trovato un suo
equilibrio. È contenta di quello che fa, ma ha dovuto scegliere tra
vita privata e lavoro, sacrificando la carriera nonostante, nel
frattempo, abbia preso due master per qualificarsi ulteriormente e
adattarsi a nuovi incarichi.
«Al di là delle
sensibilità sul costo sociale provocato da questo spreco e sulle
differenze che possono nascondersi tra una lettura qualitativa o
quantitativa del capitale umano», ha scritto su lavoce.info Emiliano
Mandrone, curatore della ricerca Isfol, «è indubbio che ciò
comporti inefficienze gravi e un costo economico ingente per gli
individui, le famiglie e lo Stato». Eppure se ne parla relativamente
poco. Un po’ perché i dati sull’over-skilling sono stati
usati, anche politicamente, per dire che non vale la pena laurearsi
in Italia, «mentre andrebbe sottolineato che, in un panorama di
crisi, i laureati conservano il posto in azienda di più dei semplici
diplomati e che, nel corso degli anni, sono quelli che più
facilmente possono cogliere le opportunità di carriera», sottolinea
l’economista Francesco Daveri.
Ma un po’ anche perché
si preferisce addossare le colpe del disallineamento su chi ne è
vittima, evitando di affrontare il problema più generale.
Bamboccioni quando non vanno via da casa (ministro Padoa Schioppa,
2007), choosy se rifiutano lavori poco pagati (ministra
Fornero, 2012), poco occupabili perché scelgono le lauree sbagliate
(ministro Giovannini, 2013). «Il Paese ha un problema di mismatch,
è evidente», sottolinea l’economista Francesco Daveri, «si pensi
solamente al gran numero di laureati in legge che sfornano le
università del Sud del Paese».
Eppure anche quando le
lauree sono quelle più appetibili sul mondo del lavoro, gli atenei
quelli più prestigiosi nelle classifiche internazionali, a volte il
meccanismo si inceppa e questo dovrebbe spingere a più di una
riflessione. Marco Taisch, professore ordinario al Politecnico di
Milano, è il delegato del rettore per il placement dei
neo-laureati. A un anno dalla laurea trova un impiego fisso l’83%
dei laureati del Politecnico di Milano, lavorano praticamente tutti e
i livelli retributivi sono ben sopra alla media. A guardare l’Italia
da qui, è facile dire che il problema è avere troppi pochi
ingegneri rispetto, ad esempio, ai laureati in Lettere. Ma a uno
sguardo più attento si scopre che «mentre abbiamo facilità di
rapporti con le grandi aziende, a volte è più difficile lavorare
con le piccole e medie aziende, spesso a conduzione familiare e
gestite con logiche non manageriali. Sono aziende nate negli anni del
boom, sulla base di idee che allora erano ottime e che però fanno
fatica a innovare. I nostri laureati arrivano in azienda, ci stanno
sei mesi o un anno, poi vanno via perché sentono di non essere
valorizzati. Capisco anche le lamentele delle piccole e medie
imprese, che non riescono a costruire un rapporto di lungo periodo
con i nostri neo-laureati, ma in effetti c’è un evidente
scollamento».
Nelle aziende familiari,
lo dice la parola, si arriva ai vertici non solo e non
prevalentemente per meriti oggettivi. Quando poi le aziende rimangono
piccole, gli investimenti in ricerca e sviluppo languono, come si può
vedere dai dati Eurostat secondo cui in Italia tali investimenti sono
pari all’1,29% del Pil (dati 2013) contro una media europea del
2,03%, il 2,84% dei tedeschi, il 2,26% dei francesi, l’1,72% del
Regno Unito.
E poi c’è un altro
fattore delicato, riguarda tutte le aziende, grandi e piccole, e se
ne parla poco perché tocca i nervi scoperti di chi, oggi
cinquantenne o sessantenne, ha ruoli di dirigenza che non vuole
vedersi sottratti da giovani che esordiscono nel mercato del lavoro
con livelli di preparazione accademica che loro non hanno. Possiede
una laurea o un titolo superiore il 25% dei manager italiani contro
una media europea del 54%, il 68% della Francia, il 51% di Germania e
Regno Unito. Il 48% dei manager italiani è semplicemente diplomato,
il 28% ha frequentato la scuola dell’obbligo. Chi nelle aziende si
trova a comandare per diritto acquisito con il passare degli anni,
indipendentemente dalla preparazione e dalla capacità di introdurre
in azienda idee nuove, tutto vuole meno che introdurre un sistema più
meritocratico.
Infine, c’è il capitolo dei salari d’entrata che dovrebbe mettere una pulce nell’orecchio di chi urla alla vergognosa abitudine dei giovani italiani a non voler lasciare casa. Se nel 2007, un anno dopo la laurea, un giovane guadagnava mediamente 1.300 euro (dati Almalaurea), ora siamo appena sopra ai mille euro (1.013 per le lauree di primo livello, 1.065 le magistrali). Sono stipendi che non permettono di vivere in grandi città, dove i costi d’affitto sono abitativi. E allora si ritorna nella città d’origine. Come ha fatto Alberto Bignardi Da Villanova, classe 1983, laurea in fisica delle particelle conseguita in sette anni, mentre lavorava come promoter. Dopo la laurea ha provato a rimanere in università, «ma guadagnavo 450 euro al mese, pagati ogni sei mesi. Posti nelle aziende private, a meno che non ti occupi di informatica, non se ne trovano. Allora sono tornato a Modena, a lavorare nell’agenzia immobiliare dei miei genitori. Le competenze che ho acquisito all’università? A volte scherzo e dico che in tutti e due i posti bisogna saper contare. Ma la verità è che la fisica, quel lavoro creativo, mi manca come l’ossigeno».
Infine, c’è il capitolo dei salari d’entrata che dovrebbe mettere una pulce nell’orecchio di chi urla alla vergognosa abitudine dei giovani italiani a non voler lasciare casa. Se nel 2007, un anno dopo la laurea, un giovane guadagnava mediamente 1.300 euro (dati Almalaurea), ora siamo appena sopra ai mille euro (1.013 per le lauree di primo livello, 1.065 le magistrali). Sono stipendi che non permettono di vivere in grandi città, dove i costi d’affitto sono abitativi. E allora si ritorna nella città d’origine. Come ha fatto Alberto Bignardi Da Villanova, classe 1983, laurea in fisica delle particelle conseguita in sette anni, mentre lavorava come promoter. Dopo la laurea ha provato a rimanere in università, «ma guadagnavo 450 euro al mese, pagati ogni sei mesi. Posti nelle aziende private, a meno che non ti occupi di informatica, non se ne trovano. Allora sono tornato a Modena, a lavorare nell’agenzia immobiliare dei miei genitori. Le competenze che ho acquisito all’università? A volte scherzo e dico che in tutti e due i posti bisogna saper contare. Ma la verità è che la fisica, quel lavoro creativo, mi manca come l’ossigeno».
Pagina 99, 30 gennaio 2016
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