Proprietario e direttore
di un quotidiano romano, “Il Tempo” (giornale « fatto senza
troppa finezza e senza troppi scrupoli » e tuttavia molto diffuso),
Riccardo Joanna resiste alla pressione di alcuni Uomini politici che
vogliono comprare il giornale per un milione di lire (siamo alla fine
del secolo scorso). È il principio della fine: “Il Tempo” va a
rotoli e Joanna, chiudendo la sua giornata, consiglierà, mestamente,
un giovane amico apprendista a trovarsi un altro mestiere. «Non
posso, disse questi con voce grave. — Farò il giornalista».
Questo direttore
sconfitto è il protagonista di uno dei rari «romanzi del
giornalismo» della nostra letteratura: La vita e le avventure di
Riccardo Joanna (1887). In esso Matilde Serao ha manifestato la
sua idea di un giornalismo vissuto, anzitutto, come «sentimento»,
come rapporto sensitivo, indi-pendente, perfino, dai contenuti,
culturali o politici, che in un giornale vanno comunque versati e dal
giornale debbono scaturire. Tale visione, ruvida e calda, la Serao la
porterà con sé nella varia attività di giornalista e di direttrice
congiungendola, con grande naturalezza, all’abilissimo mestiere del
giornalista-marito Edoardo Scarfoglio, insuperabile confezionatore
(insieme ai figli Carlo e Paolo) del “Mattino” di Napoli.
E quando, lasciato II
Mattino, la Serao si trovò sola con se stessa e con la letteratura,
rivendicò presto la sua identità fondando, nel 1904, un nuovo
giornale, “Il Giorno”, che negli anni immediatamente precedenti
l’avvento del fascismo volle mostrare un aspetto bonario della
borghesia meridionale e fu, come è stato osservato, «il rovescio
pacifico ed accomodante della medaglia del Mattino ».
Una medaglia, “Il
Mattino”, da tenere gelosamente in collezione perché vi è
sbalzata molta parte della storia d’Italia a cavallo tra i due
secoli dalla «grande frustrazione» meridionale ai più violenti
spiriti militaristici e imperialistici della borghesia di Crispi.
Scarfoglio e la Serao si intendevano a perfezione quando si trattava
di eccitare gli animi dei lettori a «egregie cose» quali le
spedizioni coloniali e la sottomissione di inermi popolazioni
abissine. Dalla penna della Serao fiorivano, talvolta con pseudonimi,
guarda caso, maschili, articoli fiammeggianti (« Non vedete —
scriveva nel 1895 —• come l'Italia vuole dare [in Africa] il suo
sangue? Non vedete che vogliono morire e lo richiedono, ridendo e
cantando"? »). A loro giustificazioni deve però dirsi che lo
stato di approssimazione incosciente con cui i nostri governi
liberali organizzavano aggressioni colonialistiche diminuiva di molto
la responsabilità morale e politica n di alcuni giornalisti
entusiasti.
“Il Mattino era
comunque il giornale più diffuso del Mezzogiorno e aderiva molto
bene sia alla tradizione che alle variazioni della società
napoletana. «Gli Scarfoglio - dirà poi Gramsci — erano dei
giornalisti nati, cioè possedevano quella intuizione rapida e
“simpatica” delle correnti passionali popolari più profonde che
rende possibile la diffusione della stampa gialla ». Ed è singolare
che di ciò fossero capaci Scarfoglio e la Serao che non erano
napoletani e ohe avevano maturato la loro esperienza di giornalisti
in un clima sociale molto diverso, quello di Roma. Questo fa pensare
che l’opinione pubblica meridionale, la «cultura media» del
Mezzogiorno si trovassero, alla fine dell'Ottocento e agli inizi del
secolo nuovo, in uno stato di ipersensibilità, di tensione politica,
di volontà di «separazione» dal resto dell’Italia, insomma in
una condizione tale da costituire il luogo ideale per un giornalismo
tendente a formare più che a informare. E non è detto che questo
non fosse il prodotto della depressione economico-sociale del
Mezzogiorno; solo che quel misto di inquietudine e di dilettantismo,
di popolarismo e di chic europeo di una certa Napoli che “Il
Mattino” interpretava in modo agile e moderno formano qualcosa di
più sottile, una particolare ideologia, venata di nostalgie
conservatrici e di spiriti avventurosi e guerrieri, sulla quale
sarebbe utile indagare non con puntigliosità scolastica ma
semplicemente con curiosità storica intelligente.
La posizione politica
della Serao giornalista, ad esempio, ha avuto delle evoluzioni che
non sarebbero comprensibili al di fuori di quella trama ideologica
«sui generis». Come direttrice del “Giorno” ella aderì,
sostanzialmente, alle posizioni di Nitti, cioè a un certo
radicalismo progressivo che lei però (ecco l’ideologia) riusciva a
smussare con dei tocchi conservatori. Il disegno nittiano di un
Mezzogiorno riscattato da un moderno capitalismo industriale veniva
diluito dalla Serao in una visione più «dégagé» delle necessità
dello sviluppo economico del Sud.
La grande fiducia
nell’intelligenza dei meridionali, nel loro trasformismo politico,
era anche alla base dell’atteggiamento del “Giorno” nei
confronti del fascismo montante. Un fascismo che la Serao e i suoi
collaboratori (tra i quali vi fu anche Luigi Salvatorelli) ritenevano
potesse essere addormentato, prosciugato dei suoi elementi di
violenza e restituito come strumento di potere neo-liberale e
antisocialista. «Il fascismo — scriveva “Il Giorno” nel 1921 —
è un errore che va a schiacciarsi contro un altro errore e dai
quali, simultaneamente, il buon senso paesano ha il dovere di
guardarsi ».
È facile parlare di
qualunquismo «ante litteram», in verità questa posizione morbida e
annoiata della Serao nei confronti del fascismo è stata il perno
della maggior parte dell’antifascismo italiano, quell’antifascismo
borghese del «buon senso» che ha orientato non solo molte coscienze
durante la dittatura ma molte strutture di potere della nostra
repubblica. Con i risultati che sappiamo.
Non dimentichiamo,
infatti, che molte antipatie antifasciste nascevano, specie nel
Mezzogiorno, non dal dissenso politico nei confronti della dittatura
ma dal fastidio per quel tanto di «popolare» che vi era nelle opere
e nei giorni del regime. L’esperienza politica e giornalistica
dell’ultima Serao va dunque valutata come un documento importante
della nostra storia contemporanea.
“la Repubblica”, 21
febbraio 1977
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