Un editoriale di Luigi
Pintor al tempo dell'introduzione dell'euro (c'era ancora la doppia
circolazione). L'autore mi pare assai acuto nello svelare i messaggi
ideologici di certe scelte linguistiche imposte con il
manganellamento mediatico. Io comunque non ho mollato: ancora oggi,
quindici anni dopo, continuo a dire euri. (S.L.L.)
Se l’euro possa essere
declinato al plurale (come i dollari o gli aerei) oppure no (come le
auto e dio) non è una questione di lana caprina, che peraltro era un
tessuto elegante ed economico sebbene rude e autarchico. E non è una
questione apparentemente oziosa come il sesso degli angeli, che ebbe
peraltro rilevanza teologica e impegnò a lungo la filosofia
scolastica, neoaristotelici e tomisti.
Noi trascuriamo a torto
le lettere dei lettori che i grandi giornali (a suo tempo anche la
Pravda) curano invece come la pupilla degli occhi. Perciò non ci
siamo accorti che la nostra rubrica di fondo pagina (quando non c’è
la pubblicità) ha avviato sulla nuova moneta un dibattito filologico
che non può lasciarci indifferenti e neutrali. A titolo personale, e
naturalmente in minoranza, non esito a schierarmi a fianco della
nostra lettrice senese contro l’euro singolare e assoluto
(monoteista) e a favore degli euri relativi e plurali (pagani).
Scientificamente non so,
non oso avventurarmi su questo terreno. Uso un lessico familiare e se
dico gatto voglio poter dire gatti. Preferisco il maschile e il
femminile al neutro, odio le maiuscole e umanizzerei al plurale
perfino i nomi propri (ci sono al mondo molti ernesti, molti tommasi,
molti luigi che già finiscono con la lettera i). La moneta è già
di per sé un’astrazione massima e idealizzarla come indeclinabile
oltreché onnipresente e onnipotente mi sembra un eccesso di zelo e
masochismo inconscio.
L’argomento secondo cui
il neologismo euro (a prescindere dal vento omonimo) è una
contrazione di Europa e pertanto non può essere articolato è un
argomento specioso e tendenzioso. Questo neologismo non designa
infatti un vecchio continente ma un nuovo oggetto, è un nuovo nome
per una nuova cosa che prima non c’era, è un sostantivo a cui
vanno riconosciuti tutti gli attributi dovuti a ogni sostantivo che
si rispetti (autonomia e dignità grammaticale e sintattica).Non
bisogna permettere che il gergo prevalga sulla lingua. Scorgo
un’insidia ideologica (non filologica), in questo euro singolare
imperativo, una suggestione feticista, la moneta totemica come
specificazione o variante del pensiero unico in vista del danaro
globale. Semplificando, al dollaro che brilla nella pupilla di
paperone preferisco gli spiccioli che diventano quasi umani nelle
nostre tasche, perché mi sembra di usarli io invece di essere da
loro usato (governato, determinato).
Infine le monete sono
fatte per essere moltiplicate, esigono il plurale (potreste mai
immaginare la moltiplicazione del pane e del pesce se non si
potessero declinare?). Eppoi è una questione di suono, di orecchio.
Euro è tenebroso, suona come orco. Euri è gioviale, suona come
puffi o finferli. Se immaginate dei bambini che giocano in un prato e
arriva l’euro tutti scappano, bambini e gnomi. È come sempre una
battaglia persa, come contro lo smog, ma con una differenza: se non
posso impedire la circolazione degli auti nessuno può impedirmi di
dire euri in luogo pubblico, al taxista, al bar e dove mi pare e
piace anche se è vietato fumare.
“il manifesto” 25/1/2002 – in Punto e a capo,
Scritti sul “manifesto” 2001-2003, manifestolibri 2004
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