Di Mario Missiroli
(1886-1974) si ricorda la lunga milizia giornalistica e specialmente
il ruolo di direttore del Corrierone “autorevole” e reticente tra
il 1952 e il 1961, gli anni d'oro della Dc, come si ricordano i
rapporti altalenanti con il fascismo. Ostile a Mussolini fu da costui
ferito in duello nei primi anni 20 e fu tra i suoi accusatori al
tempo del delitto Matteotti. Poi, protetto dal ras emiliano Leandro
Arpinati, si riconciliò con il regime e non mancò nei suoi scritti
la piaggeria nei confronti del Duce.
Missiroli ebbe, fin dalla
giovinezza, ambizioni di scrittore. Pubblicò nel 1913 La
monarchia socialista, in cui
rimproverava al conservatorismo dei Savoia la mancata riforma religiosa
che li avrebbe poi spinti, per guadagnare il consenso delle masse, ad
accettare quelle rivendicazioni socialiste che il giornalista non
amava. Pubblicò poi con Zanichelli, nel 1919, una Polemica
liberale, rivolta
prevalentemente contro democratici e socialisti.
Il
testo che segue, apparso in quell'anno sull'“Ordine nuovo”
diretto da Gramsci nella rubrica La battaglia delle idee e
firmato p.t., è formalmente una recensione al libro di Missiroli, ma
l'autore, Palmiro Togliatti, approfitta dell'occasione per una
definizione teorico-politica del liberalismo, delle sue correnti e
dei suoi rapporti con il socialismo. Mi pare che Togliatti prospetti
fin da allora, quando non c'era ancora un partito comunista, criteri
analitici che continueranno ad orientarne la condotta quando, qualche
decennio più tardi, sarà leader indiscusso del comunismo italiano e
cercherà una “via italiana al socialismo” diversa dal modello
sovietico. Anche per questo ne consiglio vivamente la lettura.
(S.L.L.)
Una immagine giovanile di Palmiro Togliatti |
Che cos’è il
liberalismo?
La
polemica, dalla quale questo libro trae il titolo, che ne forma la
parte centrale e dà luce e valore alle altre parti, si svolse tra il
Missiroli e alcuni uomini politici e di pensiero, intorno al concetto
di liberalismo e alla funzione del partito liberale. Che vuol dire
essere liberali? E se questa parola, per la stessa estensione del suo
contenuto, conserva un significato politico, quale dovrebbe essere,
in politica, il logico programma dei liberali, l’atteggiamento
coerente con le premesse di pensiero alle quali essi vorrebbero
richiamarsi? o meglio: esistono ancora degli uomini, dei gruppi, un
partito, che possano richiamarsi a queste premesse, considerarsi
depositari e propugnatori della grande idea, eredi del grande nome
ch’è sì facile rimettere a nuovo, ogni tanto, tra le stamburate
patriottiche e la retorica del Risorgimento nazionale?
Perché
il liberalismo fu pure una grande cosa; chiamarsi ed essere liberali
non fu una frase priva di senso, quando i pensatori e gli uomini di
azione del 700 e della prima metà dell’800 conducevano la polemica
e la lotta contro il sistema di governo monarchico-feudale e contro
l’ordine sociale del privilegio e degli abusi signorili, e
compievano quest’opera in modo organico, completo, con chiara
consapevolezza del valore dei principi e delle loro inevitabili
conseguenze pratiche. Il liberalismo era allora movimento radicale e
universale; aveva una sua filosofia e propugnava un rinnovamento
letterario, voleva instaurata su nuove basi la vita morale e
preconizzava tutte le trasformazioni politiche e sociali. Fonte prima
di tutto il movimento era il principio individualista e
rivoluzionario, il quale col progredire continuo della
consapevolezza; libertà diventa sicurezza di armonico sviluppo, nei
quadri stabiliti, sotto la tutela della classe che governa e
concepisce la sua azione, sotto un’apparenza di assoluto, come una
investitura perpetua da parte dello spirito del mondo. Non si parla
piu di libertà conquistata ma di libertà garantita, non più di
diritti dell’uomo ma di ordine sociale. Il nome di liberale resta,
come agli aristocratici datisi al commercio restava il titolo
nobiliare suonante di armi e di battaglie, ma i liberali sono morti,
sono diventati conservatori, «classe dirigente», uomini di ordine,
e il loro «ordine» è l’ultima forma storica del diritto divino.
La funzione liberatrice è passata ad altri, a una classe nuova, che
prendendo a sua volta coscienza del suo scopo in modo radicale e
completo, riscuote nel suo pensiero tutte le audacie, rivendica a sé
tutto ciò che di universalmente valido ancora vive nella tradizione
rivoluzionaria, e non rinnega il passato mentre si conquista
l’avvenire.
Le
vecchie classi borghesi, i partiti di governo ben sentono il pericolo
e l’equivoco della loro posizione; hanno una coscienza più o meno
chiara che il principio che ha giustificato il loro avvento al
potere, giustifica ora l’ascesa e l’affermazione di sé dei nuovi
ribelli, sanno che Babeuf non è altro che un Robespierre il quale va
fino in fondo, che Marx è figlio diretto di Hegel, e Bakunin è per
lo meno nipote di Rousseau, e vorrebbero tornare indietro, rinunciare
al diavolo e rifarsi frati, anche a costo di riaccettare un po’ di
antico regime. Ma solo il diavolo, cioè la rivoluzione, ha
legittimato i loro titoli, e rinnegando la sua logica essi perdono
ogni ragione ideale di esistere, diventano puro elemento reazionario,
forza che resiste, peso morto; il loro Stato non si giustifica più
che per motivi pratici, perché c’è della gente che non vuole
lasciare ad altri il proprio posto.
Lo Stato liberale
in Italia
Il
processo è visibile in tutti gli Stati moderni, visibilissimo in
Italia, dove, mancando una tradizione di governo unitario, ed essendo
anche non troppo ben fusa ed una la compagine nazionale, lo Stato non
altrove che nei principi della Rivoluzione poté trovare una
giustificazione ideale della sua esistenza. E così difatti fondavano
lo Stato i pensatori del Risorgimento, dal Mazzini allo Spaventa. Ma
chiusa l’epoca delle rivolte nazionali e costituzionali,
conquistato alla monarchia tutto il paese, cominciò il periodo
critico dello Stato italiano, che non poteva essere reazionario se
non voleva distruggere se stesso, mentre d’altra parte, per la
mancanza di una vera classe borghese industriale o agricola, il
partito cosiddetto liberale non riusciva mai a liberarsi dal vacuo
gioco delle parole e degli uomini, a concretare la sua azione in un
positivo programma di ricostruzione e di rinnovamento.
Noi
scontiamo ancora oggi il peccato d’origine del liberalismo
nostrano, di essere stato movimento di un’aristocrazia
intellettuale e non riscossa e riordinamento di sane e forti energie
sociali. La macchina dello Stato, costruita secondo le regole
dell’arte di governo venuteci d’Inghilterra e di Francia era
perciò destinata a diventare, nelle mani dei primi nuclei i quali
avessero organizzata la propria forza allo scopo di conquistarla,
istrumento di dominio sulle altre parti del paese e di compressione
delle rimanenti energie produttive, organo squisito di sfruttamento e
niente altro. Né la tradizione si smentisce: oggigiorno lo Stato
Italiano sono i 500 milioni di Ansaldo ecc. e i 60 mila carabinieri
di Nitti. La rivoluzione liberale tra di noi non ha servito che a
creare un perfezionato strumento di polizia.
Perciò
tra di noi acquista un significato speciale l’espressione che i
veri liberali sono i socialisti, espressione che il Missiroli si
compiace di ripetere e di cui ho cercato di spiegare quale è il
significato generale. Noi siamo, con tutte le nostre smanie e
irrequietezze pseudorivoluzionarie, uno dei paesi dove più forte e
più generale è ancora la soggezione inconscia e paziente
all’autorità esteriore. Non per niente siamo un paese dove la
Riforma religiosa non ha avuto quasi nessuna eco, non per niente
siamo la patria e la sede dell’infallibile. Anche i democratici, in
Italia, sono preti e sbirri. La lotta di classe è stata, per buona
parte del nostro popolo, l’unica scuola di libertà, il socialismo
può diventare il vero liberatore di tutto il paese nostro,
abituandoci a considerare la libertà come una conquista, gli
istituti politici come una incarnazione delle volontà organizzate e
coordinate a uno scopo comune, l’autorità sociale come attributo
della persona umana, inseparabilmente congiunto con la dignità del
lavoro.
Azione e
contemplazione
Ma
ritorniamo a M. Missiroli e alla posizione sua nella polemica che si
svolge attraverso gli articoli da lui ora riuniti in volume.
Anzitutto, bisogna riconoscere che il suo modo di impostare e
discutere le questioni gli fa una posizione speciale tra i polemisti
politici che sono ora in Italia. Nel suo libro la politica, che per
la maggior parte degli uomini non è altro che un battagliare di
persone e di programmi, che una preoccupazione del momento agita
sopra uno scenario cinematografico, la politica diventa contrasto di
principi, cozzo di avverse posizioni ideali. Missiroli non si può
perciò chiamare uomo di parte; egli è un elaboratore di idee, è in
fondo soltanto un logico abile e rigoroso. Determinato un punto di
partenza, fissata la legge interiore di un movimento spirituale, egli
ne deduce inesorabilmente le conseguenze, e le rinfaccia ai timidi,
agli incerti, a quelli che vorrebbero fermarsi a mezzo. Cosi si
rivelano le contraddizioni riposte, gli attriti secreti, e le
concordanze insospettate: il particolare si illumina della luce
dell’eterno, la cronaca si fa storia.
Del
resto il compito dello scrittore è facilitato dalla posizione
ch’egli prende: egli non parteggia, davanti al gioco immane delle
forze scatenate nel mondo, nella lotta per l’affermazione di sé,
egli rimane spettatore, non aderisce, non giudica nemmeno se non da
un punto di vista interiore al movimento di cui tratta. E fin qui
nulla di male: ognuno si scelga la parte che vuole. Ma il Missiroli
va più in là, e la sua posizione vuole giustificare da un punto di
vista universale, sostenere ch’essa è l’unica conveniente a chi
ha acquistato coscienza critica della legge intima della vita e della
storia. Perché se essa è lotta, divenire continuo, e se non esiste
un punto di fermata, che possa servire come base per un giudizio
estrinseco e definitivo, allora non esiste nemmeno un punto nel quale
l’uomo di studio possa inserire la propria azione; non resta altro
che uno spettacolo da contemplare: le posizioni contrarie si
equivalgono, la ragione è nel successo, la storia diventa un
succedersi senza mèta né scopo, più alta e vera del grido del
Manifesto dei Comunisti
risuona la parola amara dell’Ecclesiaste
: Non vi è nulla di nuovo sotto il sole.
È
l’ultima parola dell’individualismo distruttore e scettico, che
ha smarrito la certezza dell’universale, è la disperazione
romantica che si ravvolge nel manto della contemplazione, e dandosi
il nome di senso storico recide le molle dell agire. Per noi solo
nell’azione vive e si rivela l’assoluto e conoscere il vero vuol
dire concorrere alla creazione di esso, prendendo posizione,
parteggiando, immergendosi decisamente nel mare agitato della realtà.
Acquistare coscienza storica per noi vuol dire sentirsi parte
effettiva e operante della storia, conquistare sempre più chiara
coscienza del proprio scopo e quindi coscienza di sé come forza
attiva. E non possiamo disgiungere il pensare dall’operare.
Mario
Missiroli accetta come strumento di studio il metodo del pensiero
moderno, ma rifugge dal prendere la posizione di lotta che sarebbe
richiesta da esso, e rimane al di fuori della mischia, dove
s’immagina che sia l’unica pace, l'unica calma, l’unica quiete
che ancora è concessa agli uomini: quella del contemplare. Per noi
non vi è quiete che nel risolvere, operando, i problemi che agitano
questa nostra vita comune, non vi è calma che nell’eliminare,
lottando, le contraddizioni pratiche e ideali, non pace che non sia
la conseguenza di un guerreggiare.
Mario
Missiroli ha la nostalgia della stabilità del vero oggettivo che si
apprende e non si conquista, del bene che si accoglie e non si
costruisce: rinchiudendosi nella torre d’avorio dell’uomo di
studio egli finisce per negare la modernità: egli è un uomo moderno
che ha la nostalgia del cattolicismo.
“Ordine
Nuovo”, Anno I, n.19, 1919
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