14.2.18

New York 2016, la mostra “Moda e tecnologia”. Una boccata d'aria per il Met in crisi (Fabiana Giacomotti)



L'articolo contiene notizie interessanti anche per il lettore non specialista, ma infastidiscono non poco l'anglofilia linguistica, ai limiti del comico, e la visione stereotipata del rapporto USA-Europa e - in particolare - dell'Italia. La crisi di cui l'articolo parla, del Met - come viene per brevità indicato il Metropolitan Museum di New York -, è tutt'altro che risolta: la novità di questi giorni (entrerà in vigore il primo marzo 2018) è il biglietto d'ingresso obbligatorio per i non residenti (25 dollari), mentre fino ad oggi è stato sempre in vigore l'ingresso ad offerta. (S.L.L.) 

New York, Metropolitan Museum
Nessuno saprà mai per quale cifra Apple si sia assicurata il titolo di title sponsor della mostra sui rapporti fra moda e tecnologia, Manus x Machina: fashion in an age of technology, aperta al Metropolitan Museum di New York con l’annuale gala organizzato da Us Vogue “il primo lunedì di maggio”, come da film eponimo e che è l’unico evento mondano di rilevanza mediatica high-pop in un panorama focalizzato in apparenza solo sulle poderose cosce di Beyoncé nei prati del SuperBowl.
Andrew Bolton, il raffinato cinquantenne che ha sostituito dall’inizio dell’anno Harold Koda alla guida del Fashion Institute del Met, è diventato il personaggio più in vista di New York, e con ragione: portano infatti la sua firma di curatore due delle mostre più visitate della veneranda istituzione nei suoi centoquarantasei anni di storia. Nel 2011 Savage beauty, dedicata a Alexander Lee McQueen, morto suicida da appena un anno, registrò quasi 662 mila visitatori, mentre nel 2015 China through the looking glass ne ha totalizzati addirittura 816 mila, posizione numero cinque fra migliaia di mostre d’arte certamente importanti, ma non di rado prive di originalità o di un punto di vista interessante.
È stata la capacità di riscattare il dipartimento moda del Met dal ghetto, pur raffinato, in cui era stato confinato fin dalla sua istituzione negli Anni Settanta per opera di Diana Vreeland, ad aver portato questo londinese dall’aria schiva, storico compagno del designer Thom Browne, ai vertici della scena intellettuale e artistica di Manhattan che, per ragioni storico-etiche, è legata al successo economico come quella italiana non saprà mai essere per ragioni storico-etiche di segno opposto: l’intelletto premiato dal denaro in Italia puzza sempre di prostituzione; negli Stati Uniti è una conseguenza logica e benedetta dal Signore fin dai tempi in cui la Mayflower approdò dalle parti di Boston. Per questo, una mostra intelligente e di colossale riscontro di pubblico dopo l’altra, il Fashion Institute si è trasformato dalla «bella sorellina con cui tutti vogliono uscire ma che nessuno rispetta», come lo definiva Koda, nella gallina dalle uova d’oro di un museo dal nome pesante almeno quanto il suo deficit di bilancio.
Il Met è infatti in crisi da tempo; nei giorni scorsi, il “New York Times” ha rivelato quanto: 10 milioni di dollari di rosso, che rischiano di quadruplicarsi entro il 2018 se non verrà messa mano sia all’organizzazione sia, e purtroppo, al personale. Al momento, risulta in forse persino la costruzione di quella nuova ala dedicata all’arte contemporanea che avrebbe dovuto mettere il Met nelle condizioni di fare concorrenza al MoMa. Al contrario del palazzone tardo-vittoriano sulla Quinta Avenue, l’istituzione fondata nei tardi Anni Venti da un gruppetto di brillanti signore, fra cui spiccava la bella Abby Rockefeller, macina utili e donazioni, vedi l’assegno da cento milioni di dollari appena staccato dal media mogul David Geffen.
Per questo, al Met sono diventati essenziali sia il contributo intellettuale di Bolton, sia l’annuale cena di beneficenza che il direttore di “Us Vogue”, Anna Wintour, dirige e organizza con il piglio per il quale va universalmente nota e che lo scorso anno ha portato nelle casse del Met 12,5 milioni di dollari. Dunque, non crediate che il nome di Apple, a caccia di un riscatto di immagine nei confronti di Huawei e Samsung, molto attivi sui social devices, sia stato identificato a caso per sostenere una mostra che, oh sorpresa, parla di moda e tecnologia.
La moda porta notorietà e vendite, anche quando vende se stessa con difficoltà come le accade in questo momento, e Bolton, antropologo di formazione, ha capito benissimo come approcciare un pubblico che vuole sentire il frizzo e il guizzo dell’impegno culturale senza però doversi impegnare troppo. Partito dall’assunto che «tutti indossiamo vestiti» e che perciò, anche senza essere degli storici, «sulla moda tutti hanno qualcosa da dire, mentre l’arte intimidisce», in questa nuova esposizione ha saputo coniugare con un’eccentricità di taglio britannico un paio di temi di cui da questa parte dell’oceano Atlantico non si vuole sentire parlare, e cioè l’origine pesantemente sudata, faticosa, da sweatshop dickensiano appunto, della rivoluzione industriale e di quella moda prima tessile e poi di confezione che da oltre due secoli è diventata disponibile per moltissimi. Ha fatto però, e naturalmente, di più che recuperare stampe di misurazione industriale settecentesca e tabelle di colori chimici, mostrando quanta poesia, quanto impegno e quanto lavoro, pur non visibilmente sudato, si renda necessario anche per la manifattura di un prodotto di moda altamente tecnologico e non artigianale.
Da questa parte dell’Atlantico, al concetto di alta moda si affianca solo l’artigianato, le petites mains, le sartine e le midinettes con la testa china a rovinarsi gli occhi per ricamare e abbellire un capo del quale si vanteranno le centinaia di ore di lavorazione, per cui, quando Bolton ipotizza che «la couture possa essere nata a metà dell’Ottocento come reazione nei confronti di una moda che stava diventando patrimonio e accesso comune grazie alla macchina da cucire», sta dicendo qualcosa di discutibile, ma non priva di senso: il fatto che un abito di alta moda dei tempi di Charles Frederick Worth o di oggi possa richiedere le stesse ore di manifattura di un abito della corte di Elisabetta I o di Luigi XV viene vantato come segno di eccellenza e giustificazione del suo costo esorbitante, non di rado superiore ai centomila euro.
In effetti, dopotutto, e fatto salvo il costo del tessuto, una ricamatrice di oggi non esegue il proprio lavoro in un tempo inferiore a quello che una sua omologa impiegava quattro secoli fa. Eppure, quante ore di lavoro e quanto impegno si sono resi necessari per realizzare l’abito della geniale stilista olandese Iris van Herpen, che senza dubbi sarà il più fotografato dai visitatori della mostra nei prossimi mesi, e che porta sulle spalle due teschi di pavone rivestiti di silicone da cui discendono centinaia di migliaia di penne artificiali? E come non tenere conto delle infinite possibilità non solo tecniche, ma soprattutto creative, dei tagli a laser o a ultrasuoni su cui stanno lavorando, da tempo e in particolare nelle ultime collezioni, glorie storiche della moda come Giorgio Armani ma anche nomi appena assurti nel firmamento delle star come Christopher Kane?
Considerare artigianato e tecnologia come mondi lontani è un errore madornale, e ne è la riprova questa mostra, che espone uno accanto all’altro capi di Dior ornati di quei primi dettagli artificiali in uso anche in Italia a metà degli Anni Cinquanta (per ulteriore confronto, guardare negli archivi costumi della Rai) e, appunto, i petali cut out della collezione 2014 di Kane. Il capo da cui è originata la ricerca di Bolton e la stessa immagine della mostra è un abito da sposa Chanel Couture Inverno 2014 in scuba knit con uno strascico di quattro metri interamente ricamato a mano: fosse stato disponibile, Josephine Beauharnais l’avrebbe indossato volentieri prima di mettersi in posa per David.
La tecnologia come antagonista della creatività manuale, cioè dell’artigianato vecchio stile e non sempre o necessariamente di ottima fattura, è un concetto molto italiano e sul quale l’Italia continua a puntare sia negli infiniti convegni a sostegno del “made in Italy” sia nelle “missioni” all’estero capitanate da quel monumento al pensiero corporativo di piccolo cabotaggio che è l’Ice, ed è un peccato, se si pensa che molte delle innovazioni tecnologiche di cui la moda internazionale si avvale, dai film stampati per auto, calzature e arredi alla progettazione orafa in 3D sono italiane, insieme con infinite sperimentazioni sui tessuti e sulle pelli.
Fra i maggiori produttori di tessuti innovativi, la Pratrivero, spin off della Barberis Canonico, è un modello di business che fornisce sia le grandi griffe sia Ikea con tessuti-non tessuti low cost e si sta ampliando anche con acquisizioni negli Stati Uniti (non siamo solo facili prede; ogni tanto compriamo pure noi). Zegna ha appena sviluppato con la turca Isko un tessuto denim rivoluzionario che sarà presentato fra qualche mese. E non ci sono dubbi che le fibre man made, come il tencel, sostenibile e molto resistente, sostituiranno a poco a poco fibre come il cotone, altamente inquinante oltre che un potente desertificatore.
Molti degli abiti esposti nella mostra del Met sono, se non di design, di fattura e realizzazione italiana. Pochissimi lo sanno, anche fra gli italiani, anche fra gli esperti: per moltissimi, le ultime innovazioni sono state il rayon, la salpa e il celeberrimo Lanital autarchico, anno di lancio 1937, un filato tratto dalla caseina del latte che ai bambini attuali ricorderebbe certi morbidissimi peluche a poco prezzo, e l’ultima azienda chimico-tessile di una certa rilevanza la Snia.
Sarà per questo, forse, che probabilmente, quando tre anni fa la stilista tedesca Domaske ha provato a rilanciare il Lanital, tutti ci siamo sentiti assurdamente orgogliosi.


Pagina 99, 7 maggio 2016

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