Il prete cattolico Pino Demasi, referente di Libera per la piana di Gioia Tauro |
Cellula alla base
dell’organizzazione, scrigno per custodire le regole, luogo sicuro
per progettare e proteggere gli affari, asse attraverso cui
trasmettere lo scettro del comando. C’è la famiglia all’origine
delle fortune della ’ndrangheta.
«I vincoli familiari»,
sostiene lo storico Enzo Ciconte, «sono stati la più potente forma
di protezione delle cosche calabresi: difficilmente sei disponibile a
parlare contro un fratello o un genitore». Non è un caso, allora,
se a fronte dei 1.235 pentiti italiani (dati 2015 del Servizio
centrale di sicurezza) solo 156 appartengano ai clan calabresi: la
metà di Cosa nostra e appena un quarto della camorra.
Sono state queste solide
radici familiari, insomma, insieme alla capacità di stare nel potere
e nel capitalismo, all’esercizio della violenza e alla scelta di
non partecipare alle stragi degli Anni Novanta, a permettere alla
’ndrangheta di costruire la sua dimensione glocal – testa in
Calabria, mani nei cinque continenti – e a determinarne
l’inarrestabile ascesa.
Eppure oggi, proprio
mentre la ’ndrangheta raggiunge il primato mondiale nel traffico
della cocaina, il cuore del sistema mostra le prime inattese crepe.
Un’iperbole di
ottimismo? Possibile. Ma forse vale la pena riordinare i pezzi di
questa macchina perfetta, che inaspettatamente rischia di incepparsi.
I figli della
’ndrangheta
La prima, e forse più
importante, spia rossa per i boss è comparsa tra i dati del
Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria dove è in corso una
piccola rivoluzione: dal 2012 a oggi, infatti, il presidente del
Tribunale Roberto Di Bella ha emesso 40 decreti di decadenza o
limitazione della potestà genitoriale. Significa cioè che 40
ragazzi e ragazze sono stati “tolti” ai genitori 'ndranghetisti e
stanno vivendo una nuova vita. Un colpo concreto, e anche di
immagine, per i clan.
«Abbiamo dato a questi
giovani la possibilità di conoscere un’alternativa e di decidere
del loro futuro», racconta il magistrato. Raggiunta la maggiore età,
sono loro a scegliere se continuare a vivere liberi o tornare nel
clan. Un processo sociale difficile, sul cui esito nessuno può
offrire garanzie, ma «finora», rassicura Di Bella, «abbiamo
ottenuto risultati importanti anche con situazioni che sembravano
impossibili e, da quanto ci risulta, nessuno ha più commesso reati
di mafia. Inoltre anche chi è rientrato a casa continua a chiederci
sostegno». Una goccia nel mare, forse. O piuttosto un insidioso
granello di sabbia dentro un delicato ingranaggio.
Le ragioni delle
donne
I primi decreti del
Tribunale sono stati emessi quando è diventata più stretta la
collaborazione con la procura antimafia «che ci segnala in tempo
reale le situazioni familiari di disagio e le contraddizioni su cui
provare a intervenire. Ma nel 90/95% dei casi», spiega Di Bella, «è
nelle madri che troviamo sponde affidabili: hanno capito che i nostri
provvedimenti non hanno una logica punitiva e sono invece a tutela
dei ragazzi. Sono loro a chiederci di intervenire e allontanare i
figli dai contesti criminali». Naturalmente non si comportano tutte
nello stesso modo. «In alcuni casi sono sponde silenziose, di chi
non si oppone. Altre volte», aggiunge il magistrato, «vanno via con
i figli e cercano anche loro l’occasione per rifarsi una vita».
Sono sempre di più, e
sempre più determinate le donne. Per ragioni tutto sommato semplici.
«Fanno una considerazione molto semplice: la repressione, gli
arresti e la legge sui beni confiscati hanno cambiato la
prospettiva», spiega don Pino Demasi, parroco di Polistena (Rc) e
referente territoriale di Libera, «e adesso si chiedono quale futuro
possono garantire ai propri figli: un tempo lasciavano la ricchezza,
adesso quasi nulla. Così hanno capito che il clan non conviene più».
Lo conferma il pm della Dda di Reggio Calabria, Stefano Musolino:
«Inizialmente la ’ndrangheta ha rappresentato anche un fattore di
emancipazione sociale. Le donne sopportavano i sacrifici perché alla
scalata criminale del marito corrispondeva la loro crescita economica
e sociale. Erano le garanti della stabilità della famiglia perché
avevano un obiettivo comune». Non è più così: «Adesso molte
famiglie hanno subito conseguenze pesanti dal punto di vista
economico e affettivo con lutti o lunghe carcerazioni. Insomma –
osserva Musolino – si guadagna poco e si rischia molto».
Ci sono poi scelte
personali molto forti, a volte estreme. Come quella della testimone
di giustizia di Rosarno Giuseppina Pesce, capace di far condannare i
suoi parenti. O di Maria Concetta Cacciola, anche lei rosarnese,
indotta a suicidarsi per avere voluto proteggere i figli dalla sua
famiglia. Più delicata e controversa la storia di Maria Rita Lo
Giudice, la 24enne nipote di un boss pentito che s’è tolta la vita
a Reggio Calabria lo scorso aprile. Un fatto senza una spiegazione
chiara – e che quindi merita massima cautela e prudenza nei giudizi
– che il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Federico
Cafiero De Raho ha commentato così: «Abbiamo perso una ragazza che
stava provando a percorrere un cammino diverso perché non abbiamo
avuto la sensibilità di comprendere che ci sono mutamenti a cui
tutti devono concorrere». Nessuno conosce le ragioni intime della
sua scelta, ma è certamente un fatto che ha creato molti
interrogativi in città.
Consenso e
insofferenza
Lentamente, e in maniera
disordinata, le cose stanno cambiando. Non siamo più agli anni
Ottanta, quando nel primo maxiprocesso 31 dei 33 sindaci convocati
dai magistrati addirittura negarono l’esistenza stessa della
’ndrangheta. Ma non è iniziata nessuna tangibile ribellione
civile. Anzi. «Conosciamo però storie particolari, di parentele,
frequentazioni, fidanzamenti mafiosi», racconta Stefano Musolino,
«che non sono più accettati socialmente come in passato. Non è
ancora un fenomeno diffusissimo, ma cominciamo a registrare dei
timidi segnali. Soprattutto a Reggio Calabria, molto meno nei paesi
della provincia».
Scricchiolii, dentro
enormi contraddizioni. Basti pensare alle parole – diventate un
caso sul web e riprese dai tg nazionali – pronunciate lo scorso 10
aprile dal colonnello Giancarlo Scafuri, comandante provinciale
dell’Arma di Reggio Calabria. Durante il suo intervento alla
commemorazione del brigadiere Rosario Iozia ucciso 30 anni fa in
Calabria, il carabiniere faceva notare che in certi contesti si fa
ancora fatica persino a nominare la parola ’ndrangheta. La strada
insomma è ancora molto lunga. C’è paura, c’è disagio, c’è
povertà. E in troppi continuano a considerare conveniente chiedere
un favore o fare affari con le cosche. Ma i processi sociali non sono
mai lineari e, volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, alcune
scelte della ’ndrangheta – che non hanno ancora conseguenze
apprezzabili – alla lunga potrebbero costare caro. Tra i cittadini
hanno destato molto malumore (seppure ancora silenzioso) gli attacchi
ripetuti ai servizi – uno scuolabus incendiato a Martone, un
attentato contro un (futuro) centro culturale a Caulonia, le fiamme
contro l’impianto dei rifiuti a Gioiosa Ionica, i lavori “truccati”
nelle scuole di Locri. Lo scorso autunno ha provocato sconcerto, e
alcune manifestazioni, l’indegna e abietta violenza sessuale di
gruppo contro una bambina di Melito Porto Salvo.
«Certe spavalderie»,
ragiona Musolino, «non passano più inosservate: lasciano tracce tra
le persone e cominciano ad avere conseguenze penali serie». Il
riferimento è all’operazione “Eracle” sui condizionamenti (con
spaccio, risse, il servizio di security) della movida reggina che
pochi giorni fa ha portato a una ventina di arresti. «Diventando più
temuta, anche l’attività repressiva può rappresentare un fattore
di cambiamento sociale e può servire a far diminuire il mito e il
consenso della ’ndrangheta».
Sarebbe tutto più
semplice «se ci fosse una risposta dello Stato integrata, capace di
unire repressione e politiche sociali e culturali», sottolinea il pm
napoletano Francesco Cascini, che ha appena concluso la sua
esperienza al vertice del Dipartimento della giustizia minorile. O
se, per esempio, il Tribunale per i minorenni di Reggio potesse
davvero operare in stretta sinergia con i servizi del territorio. Una
cosa banale, eppure impossibile. Infatti «in tutta la provincia su
83 Comuni», denuncia Cascini, «ben 81 non hanno il servizio sociale
e anche le politiche socio-sanitarie sono sostanzialmente assenti».
L’ora della sfida
Tuttavia anche se la
’ndrangheta è forte e lo Stato non sempre all’altezza, se la
risposta dei cittadini è debole e le compromissioni ancora pesanti,
può essere questo il momento di alzare il livello della sfida, di
provare a costruire un’antimafia delle opportunità per le ragazze
e i ragazzi dei clan o che rischiano di finire tra le grinfie dei
clan. Di produrre cioè nuovi granelli di sabbia da immettere
nell’ingranaggio mafioso.
«La ’ndrangheta non
vive nell’Iperuranio», sostiene lo storico Ciconte, «e come la
società subisce processi di trasformazione. Non è più quello di un
tempo il senso della famiglia e le cosche non hanno più la
compattezza del passato: anche nella ’ndrangheta ci sono poche
famiglie molto ricche e tanti che sopravvivono o addirittura poveri.
Il sistema che conoscevamo comincia perciò a segnare il passo». Per
questa ragione, la principale scommessa dell’antimafia di oggi è
«salvare i figli», sottolinea don Demasi: «Bisogna trovare il modo
di avvicinarli sin da piccoli, entrare nelle famiglie, cominciare a
seminare. E farli partecipare a un gioco in cui le regole le dettiamo
noi e non più loro». Si tratta di una strategia «che forse non
funzionerà per i figli dei boss», sostiene, «ma che è
fondamentale per i figli dei cosiddetti manovali».
Insomma sarà anche vero
che la strada resta in salita e non è saggio farsi facili illusioni,
sarà anche vero che la 'ndrangheta globale «si muove ormai a
livelli altissimi nell’economia, nella finanza, in borsa con la la
droga», sottolinea il pm Musolino, «ma la sua forza sta ancora
nella capacità di tornare alle origini. E se, poco per volta,
dovesse perdere davvero la solidità della famiglia, se dovesse
perdere l’aggancio con il territorio e le radici... magari...».
Magari l’iperbole di ottimismo potrebbe diventare pratica della
realtà. E, chissà, la macchina perfetta incepparsi davvero.
Twitter: @danilo_chirico
Pagina 99, 26 maggio 2017
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