5.2.18

Futurismo e danza. E Diaghilev fu tentato da Depero (Luigi Rossi)

«La migliore delle conquiste futuriste sul terreno spettacolare poté effettuarsi nel settore della pantomima e del balletto... In forme specifiche dovette concretarsi, a contatto col materiale umano dei mimi e dei danzatori, una estetica che era per massima parte affidata a valori di ritmo, dinamismo, stupore visivo, astrazione, stilizzazione plastica e cromatica».
Questa mirabile sintesi di Angelo Maria Ripellino, alla voce «Futurismo» della Enciclopedia dello Spettacolo, si conclude altrettanto convincentemente con l’affermazione: «Tutto insomma predestinava il movimento futurista (a ciò maturo traverso le vitali ricerche di Boccioni, Corrà e Se-verini) a trovare nel balletto-pantomima la più persuasiva traduzione scenica delle sue enunciazioni, tanto saporite quanto velleitarie».
Quest’ultimo riferimento va forse indirizzato in particolare ad Enrico Prampolini, geniale e disordinato teorizzatore di ogni dimensione dello spettacolo, che riuscì raramente a tradurre in eventi teatrali, se si eccettua la breve stagione parigina del 1927-28 del «Teatro della Pantomima».
Ancora più evidente l’allusione per Fortunato Depero per il quale è facile applicare l’amara boutade di Anton Giulio Bragaglia: «In Italia vi sono registi senza attori e scenotecnici senza teatri». Il progetto scenografico dell’artista trentino per Chant du Rossignol di Stravinsky, da rappresentarsi dai Ballets Russes di Diaghilev, non andò mai in porto, restando relegato sulla carta in vivaci bozzetti e figurini.
Non molto più fecondo l’altro contatto di Diaghilev con il Futurismo, nei medesimi anni a Roma. Il poema sinfonico Feu d’artifice, sempre per la musica di Stravinsky, ebbe un’unica rappresentazione al teatro Costanti il 12 aprile 1917. Eppure fu tra i più singolari spettacoli in cui si applicò lo strenuo sperimentalismo di Diaghilev che si incaricò personalmente della regia. L’impianto scenico e le luci erano di Giacomo Balla, anzi Futurballa come firmava immancabilmente all’epoca.
Si tratterà dell’unica collaborazione che i Ballets Russes ebbero con il Futurismo italiano e col Futurismo in generale, anche se Diaghilev sfiorò aree artistiche affini come il Costruttivismo sovietico con il Pas d’acier di Prokofiev. L’interesse del geniale patron russo per il movimento di Marinetti fu tuttavia non superficiale, come dimostrano i molti incontri milanesi di Diaghilev con quest’ultimo, presenti anche Stravinsky e Russolo che sperimentò davanti a loro il suo curioso Intonarumori.
Fallita la collaborazione con Diaghilev, Depero non si dette per vinto e miniaturizzò i suoi esperimenti nei «Balli plastici», uno dei più geniali contributi al teatro futurista. I coloriti fantocci e la spiritosa scenotecnica sempre improntata ad un vivace cromatismo segnarono una tappa importante nello spettacolo del nostro tempo, fungendo anche da caposcuola. Basta pensare al Triadisches Ballet di Oscar Schlemmer, uno dei capisaldi dell’avanguardia tedesca degli Anni Venti, chiaramente ispirato a Depero. I «Balli plastici» andarono in scena al Teatro dei Piccoli a Roma nel 1918, con l’apporto musicale di due grandi compositori come Gianfrancesco Malipiero e Alfredo Casella, quest’ultimo anche in veste di direttore d’orchestra.
Quasi contemporaneamente Prampolini proponeva un meno fortunato tentativo di Balli meccanici, rimasto sostanzialmente allo stato di progetto e come spesso avveniva per questo fecondo teorico, che in seguito scriverà: «Con la Pantomima futurista ho inteso di porre in collaborazione tutte le arti dell'azione visiva, plastica e dinamica... Soggetto, musica, coreografia collaborano per creare in una unità scenica lo spettacolo per realizzare un sincronismo meccanico fra l’arte del suono e quella del gesto». In questo Manifesto, del 1927, in cui teorizzava pure una vaga «coreoplastica» da sostituire futuristicamente alla coreografia Prampolini riprendeva sostanzialmente la generosa utopia del teatro totale di Diaghilev e anticipava molte idee del nostro tempo, da Béjart in avanti.
La «fusione delle arti», come li chiamavano i futuristi, era già stata sperimentata del resto dallo stesso Prampolini al Théàtre de la Madeleine di Parigi nel 1927-28, con trentuno rappresentazioni che coinvolsero alcun bei nomi dell’arte italiana, a partire da Pirandello con La Salamandra, «sogno mimico» musicato da Massimo Bontempelli che della composizione faceva qualcosa in più di un semplice «violon d’Ingres». Tra le cose più memorabili in cartellone anche L’ora del fantoccio di Luciano Folgore con musica di Casella, La nascita di Ermafrodito di Vittorio Orazi musicato da Respighi e Cocktail dello stesso Marinetti per la musica di Silvio Mix.
Anche il teatro della Pantomima futurista ebbe effimero destino e brevi stagioni in Italia dopo il battesimo a Parigi. Ma l’influenza indiretta delle teorie innovatrici del movimento andò ben oltre l’apporto diretto agli spettacoli con esplicita etichetta futurista, lanciando energici sassi nel sonnacchioso stagno del balletto europeo ancora attardate soprattutto in Italia, tra gli stanchi epigoni neo-romantici o del «ballo grande» tardo ottocentesco.


In Futurismo, Supplemento a “La Stampa”, 8 maggio 1986

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