«La migliore delle
conquiste futuriste sul terreno spettacolare poté effettuarsi nel
settore della pantomima e del balletto... In forme specifiche dovette
concretarsi, a contatto col materiale umano dei mimi e dei danzatori,
una estetica che era per massima parte affidata a valori di ritmo,
dinamismo, stupore visivo, astrazione, stilizzazione plastica e
cromatica».
Questa mirabile sintesi
di Angelo Maria Ripellino, alla voce «Futurismo» della Enciclopedia
dello Spettacolo, si conclude altrettanto convincentemente con
l’affermazione: «Tutto insomma predestinava il movimento futurista
(a ciò maturo traverso le vitali ricerche di Boccioni, Corrà e
Se-verini) a trovare nel balletto-pantomima la più persuasiva
traduzione scenica delle sue enunciazioni, tanto saporite quanto
velleitarie».
Quest’ultimo
riferimento va forse indirizzato in particolare ad Enrico Prampolini,
geniale e disordinato teorizzatore di ogni dimensione dello
spettacolo, che riuscì raramente a tradurre in eventi teatrali, se
si eccettua la breve stagione parigina del 1927-28 del «Teatro della
Pantomima».
Ancora più evidente
l’allusione per Fortunato Depero per il quale è facile applicare
l’amara boutade di Anton Giulio Bragaglia: «In Italia vi
sono registi senza attori e scenotecnici senza teatri». Il progetto
scenografico dell’artista trentino per Chant du Rossignol di
Stravinsky, da rappresentarsi dai Ballets Russes di Diaghilev, non
andò mai in porto, restando relegato sulla carta in vivaci bozzetti
e figurini.
Non molto più fecondo
l’altro contatto di Diaghilev con il Futurismo, nei medesimi anni a
Roma. Il poema sinfonico Feu d’artifice, sempre per la
musica di Stravinsky, ebbe un’unica rappresentazione al teatro
Costanti il 12 aprile 1917. Eppure fu tra i più singolari spettacoli
in cui si applicò lo strenuo sperimentalismo di Diaghilev che si
incaricò personalmente della regia. L’impianto scenico e le luci
erano di Giacomo Balla, anzi Futurballa come firmava immancabilmente
all’epoca.
Si tratterà dell’unica
collaborazione che i Ballets Russes ebbero con il Futurismo italiano
e col Futurismo in generale, anche se Diaghilev sfiorò aree
artistiche affini come il Costruttivismo sovietico con il Pas
d’acier di Prokofiev. L’interesse del geniale patron russo
per il movimento di Marinetti fu tuttavia non superficiale, come
dimostrano i molti incontri milanesi di Diaghilev con quest’ultimo,
presenti anche Stravinsky e Russolo che sperimentò davanti a loro il
suo curioso Intonarumori.
Fallita la collaborazione
con Diaghilev, Depero non si dette per vinto e miniaturizzò i suoi
esperimenti nei «Balli plastici», uno dei più geniali contributi
al teatro futurista. I coloriti fantocci e la spiritosa scenotecnica
sempre improntata ad un vivace cromatismo segnarono una tappa
importante nello spettacolo del nostro tempo, fungendo anche da
caposcuola. Basta pensare al Triadisches Ballet di Oscar
Schlemmer, uno dei capisaldi dell’avanguardia tedesca degli Anni
Venti, chiaramente ispirato a Depero. I «Balli plastici» andarono
in scena al Teatro dei Piccoli a Roma nel 1918, con l’apporto
musicale di due grandi compositori come Gianfrancesco Malipiero e
Alfredo Casella, quest’ultimo anche in veste di direttore
d’orchestra.
Quasi contemporaneamente
Prampolini proponeva un meno fortunato tentativo di Balli
meccanici, rimasto sostanzialmente allo stato di progetto e come
spesso avveniva per questo fecondo teorico, che in seguito scriverà:
«Con la Pantomima futurista ho inteso di porre in
collaborazione tutte le arti dell'azione visiva, plastica e
dinamica... Soggetto, musica, coreografia collaborano per creare in
una unità scenica lo spettacolo per realizzare un sincronismo
meccanico fra l’arte del suono e quella del gesto». In questo
Manifesto, del 1927, in cui teorizzava pure una vaga
«coreoplastica» da sostituire futuristicamente alla coreografia
Prampolini riprendeva sostanzialmente la generosa utopia del teatro
totale di Diaghilev e anticipava molte idee del nostro tempo, da
Béjart in avanti.
La «fusione delle arti»,
come li chiamavano i futuristi, era già stata sperimentata del resto
dallo stesso Prampolini al Théàtre de la Madeleine di Parigi nel
1927-28, con trentuno rappresentazioni che coinvolsero alcun bei nomi
dell’arte italiana, a partire da Pirandello con La Salamandra,
«sogno mimico» musicato da Massimo Bontempelli che della
composizione faceva qualcosa in più di un semplice «violon
d’Ingres». Tra le cose più memorabili in cartellone anche L’ora
del fantoccio di Luciano Folgore con musica di Casella, La
nascita di Ermafrodito di Vittorio Orazi musicato da Respighi e
Cocktail dello stesso Marinetti per la musica di Silvio Mix.
Anche il teatro della
Pantomima futurista ebbe effimero destino e brevi stagioni in Italia
dopo il battesimo a Parigi. Ma l’influenza indiretta delle teorie
innovatrici del movimento andò ben oltre l’apporto diretto agli
spettacoli con esplicita etichetta futurista, lanciando energici
sassi nel sonnacchioso stagno del balletto europeo ancora attardate
soprattutto in Italia, tra gli stanchi epigoni neo-romantici o del
«ballo grande» tardo ottocentesco.
In Futurismo,
Supplemento a “La Stampa”, 8 maggio 1986
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