"Il Mercante di Venezia" di Shakespeare nella regia di Luca Ronconi (1988) |
Curiosamente in
quest’epoca abituata a ogni sorta di provocazioni, sono ancora i
classici a scuotere le coscienze assopite, e talvolta, come per
l’Antigone della Rossanda, basta un'introduzione a scatenare
una polemica sopita.
Il Mercante di Venezia
nella nuova edizione di Ronconi non ha mancato, in questi tristi
tempi di repressione palestinese, di ridestare discussioni. Ci si è
chiesti in che misura Shakespeare avesse inteso rappresentare la
condizione ebrea nella contraddittoria figura di Shylock. E in
effetti una possibile datazione dell’opera al 1594 la
ricollegherebbe all’esecuzione capitale di un ebreo, Roderigo
Lopez, medico della regina, accusato di avere tentato di avvelenarla.
Il presunto colpevole venne impiccato e squartato, ma soprattutto
lasciò dietro di sé una scia di odi e risentimenti razzisti. Certo
l’usuraio Shylock non è un personaggio positivo, nonostante le sue
celebri proteste: «Sono un ebreo. Ma non ha occhi un ebreo? Non ha
mani, organi, membra, sensi, affetti, passi un ebreo? Non si nutre
degli stessi cibi?». Eppure Shakespeare ce lo mostra avido e privo
di sentimenti, tranne l’affetto per la figlia, pronto a utilizzare
la legge in modo disumano. Insomma la questione dell’antisemitismo
shakespeariano rimane aperta.
Del resto ogni
riedizione, come la più recente, del conflitto Mozart-Salieri
scatena ridde di discussioni sul genio, la precocità, il destino e
soprattutto la gelosia dei mediocri verso i grandi. In un’ultima
eco del romantico conflitto tra sregolatezza e mediocrità,
intitolato, appunto, Non dimenticate Mozart, il musicista
veniva assunto a simbolo dell’estraneità inquietante del genio
alla meschinità insormontabile del potere.
Le riedizioni
rivoluzionarie di antichi temi colpiscono in modo particolare, in
quanto, inserendosi fittiziamente nella tradizione, sembrano
indebolire la legittimità dei bersagliati. Chi reagisce
violentemente ad asserzioni su cui non si sarebbe pronunciato in
altra veste, lo fa nella preoccupazione di vedere i propri avversari
trincerarsi nel territorio consolidato della tradizione, per muovere
i loro attacchi. In questo modo risulta quindi svelata l’ambiguità
della tradizione, ridotta, da baluardo di ogni istituzione, a
specchio variabile degli umori della società. Del resto esistono
veri e propri classici dello scandalo, come il povero Sade, molto più
condannato che letto a ogni successiva riedizione letteraria o
teatrale e ultimamente colpito dalla più insidiosa delle accuse: la
noiosità. Si insinua che dietro la sua aggressività si nasconda un
nefasto amore dell'ordine o una paradossale assenza di desiderio.
Pochi rilevano la fondamentale innocenza della sua vita, che sarebbe
rimasta inosservata, in un secolo di libertinaggio, se il povero
Marchese non avesse messo per iscritto i suoi sogni. Tuttavia,
nonostante la consunzione oggettiva del tema, ogni volta le sue
complesse macchine erotiche fanno scaturire schiere di partigiani
dello sfrenamento sessuale, cui si
contrappongono
altrettanti difensori di un pudico umanesimo. Del resto proprio
Pasolini, con la sua scandalosa trasposizione delle Centoventi
giornate sadiane nel cupo declino della Repubblica di Salò,
aveva accreditato l’ipotesi, combattuta da saggisti come Bataille,
di un Sade autoritario, votato al culto della morte e del sangue.
La Morte di Danton
di Buchner, rappresentato per la prima volta nel 1835 e recentemente
riecheggiato in cinema da Wajda, non ha mancato di suscitare fervide
meditazioni intorno all’opportunità degli oneri sanguinosi della
Rivoluzione francese e all’ambiguità dell’uomo politico,
interpretato da Dépardieu. Le contraddizioni di Danton, sospeso tra
l’eroismo e lo scetticismo, il disperato edonismo dei moderati,
incerti sull’esito del sommovimento, le incertezze di Robespierre,
personaggio tradizionalmente monolitico, nel bene e nel male sono
fatte per ridestare il dibattito, com'è puntualmente accaduto.
La ripresa di un mito
cristiano, Il martirio di San Sebastiano di D’Annunzio, era
destinata a suscitare scalpore ancora prima di calcare le scene.
Robert de Montesquieu, membro influente sul mondo letterario
parigino, aveva preannunciato che si trattava di un capolavoro.
L'efebica Ida Rubinstein aveva offerto al martire il suo corpo
sottile e Debussy le sue note. D’Annunzio esortava implacabilmente
l’interprete a esercitarsi al tiro con l’arco, mentre profittava
dei favori del folto gruppo d’attricette aspiranti ai ruoli minori
del Martirio. La stampa aveva seguito da vicino le prove, creando una
vasta aspettativa, ma una settimana prima il vescovo di Parigi
condannò solen- ì nemente lo spettacolo di un autore all’indice.
L’incriminato rispose, insieme a Debussy, con una lettera di
protesta sul “Figaro”, vantando i meriti di un’opera
«profondamente religiosa, una glorificazione lirica non solo
dell’Atleta mirabile di Cristo, ma di tutto l’eroismo
cristiano».
Subito i salotti si
divisero. Per tacitare i conservatori, il poeta ricorse, con mossa
geniale, al loro massimo rappresentante, Barrès, cui dedicò
pomposamente l’opera, con somma soddisfazione dello scrittore
francese. Nel complesso lo spettacolo fu poco apprezzato. I cattolici
reagirono con indignazione alle mollezze dell’androgino e solo Leon
Blum approvò calorosamente.
Molto distante, nel tempo
e nella tematica, appare Le mosche di
Sartre in cui il mito di Oreste veniva ripreso in
chiave esistenzialista, trasformando il vendicatore del padre in un
avversario del potere costituito, impersonato dall’usurpatore
Egisto, in cui si rifletteva, nel 1943, la condanna dell’occupazione
nazista e del collaborazionismo. Trattato duramente dai critici, il
dramma ebbe ampi, anche se, ovviamente, cauti consensi del pubblico.
Ultimamente una
Pentesilea kleistiana d’ispirazione femminista ha suscitato
vivaci discussioni, ma, in quest’epoca di revival sessantotteschi
basta ricordare la grottesca vicenda dei giovani americani di quegli
anni, vistisi imputare di stampa sovversiva per avere pubblicato in
un manifesto alcuni articoli della costituzione americana.
EUROPEO, 26 FEBBRAIO 1988
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