Maria Roa Borja
Medellin (Colombia)
«Molte domestiche si
comportano male, a volte rubano le cose o maltrattano i bambini
quando i proprietari di casa sono via», dice d’un fiato la signora
che si è appena seduta al nostro stesso tavolo, in un bar del barrio
Aranjuez a Medellin. Sorseggiando il suo tinto con leche, il caffè
macchiato, non ha potuto non ascoltarci. Ed è stato più forte di
lei infilarsi nella conversazione.
Lasciato il discorso a
metà, Maria Roa Borja la guarda di sguincio girando appena il capo,
fasciato da uno dei suoi foulard colorati. Gli occhi, che per un
momento si erano fatti durissimi, cedono in tenerezza. Sorride, senza
dir niente. Così l’altra aggiunge: «Guardi che anch’io sono per
i diritti delle domestiche».
Maria Roa Borja sa
sfoggiare il suo sorriso come un’arma. La sua risata è contagiosa
e calda. Gli occhi seducenti. Entrando al bar, per mano il figlio più
piccolo, non c’è avventore che non si sia girato. Per un attimo il
vociare si è spento, mentre dalla tivù il reggaeton continuava a
gran volume come al solito.
Con lo stesso piglio
Maria Roa Borja si è messa alla testa di una rivoluzione gentile che
sembrava impensabile in Colombia. A dicembre se n’è accorto anche
il New York Times. Tre anni fa questa trentaseienne di Medellin ha
creato la Unione sindacale delle lavoratrici domestiche. Sono partite
in 28. Ora sono 150. Mano a mano hanno strappato una serie di riforme
che hanno esteso diritti e regole sindacali per le oltre 750 mila
persone che in tutto il paese si calcola lavorino nelle case
colombiane. Quasi tutte donne, quasi tutte nere. E quasi tutte di
“strato sociale” 1 e 2, come qui si numerano le classi, come
fosse qualcosa di normale.
Maria Roa Borja ricorda
quando è dovuta fuggire dalle campagne coltivate a banane di
Apartadó, nella regione di Antioquia, dove infuriava la guerra e
«dove il sangue gira più dell’acqua», mormora con gli occhi
lucidi. Là ha lasciato tutto, compreso il corpo di una sorella,
uccisa dalla guerriglia. Aveva 18 anni quando è arrivata a Medellin.
E quasi dieci li ha passati a fare la domestica. «Non so nemmeno in
quanti posti. Però ricordo l’ultimo».
Viveva in casa con la
famiglia che accudiva, come fa quasi la metà delle domestiche. Si
arriva il lunedì mattina e si va via il sabato sera. «Era una
coppia di professionisti, con due figli. Mi alzavo alle 4. Colazione
veloce. Svegliavo i bambini e li preparavo fino a farli salire in
autobus. Poi c’era la colazione per i signori che se ne andavano al
lavoro. Il pranzo doveva essere pronto alle 12 e la cena alle 18.
L’intera casa da pulire e tanta roba da stirare. La sera lavavo le
uniformi dei ragazzi e finivo di sistemare tutto alle 23». Così per
anni. «Mi prendevo cura come una madre ormai solo dei loro bambini.
Quasi dimenticavo di averne anch’io. Quando gli ho chiesto di avere
il week end libero per stare con loro, me l’hanno negato. Era
troppo. Mi son detta: ora basta».
Due anni fa
l’associazione di afro–colombiani Carabantú ha realizzato a
Medellin un’inchiesta tra le empleadas domesticas assieme
alla Ens, la Scuola nazionale del sindacato. È stato come dire a
voce alta qualcosa che tutti sapevano, ma di cui nessuno tutt’ora
parla volentieri in pubblico. Così è emerso che l’ 85,7% delle
domestiche non ha un contratto, ma solo un accordo verbale. Il 97.6%
ha figli e sono madri sole o separate.
E ancora. Quasi due terzi
vengono dalle campagne e per un quarto sono desplazadas,
profughe interne fuggite dalle scorribande di esercito, paramilitari
e guerriglia. Il 54,8% di queste lavoratrici dice di sentirsi
discriminata per il colore della pelle. Lavorano tra le 10 e le 18
ore al giorno, per un salario che per la maggior parte varia tra i
300 mila pesos e i 566 mila al mese, vale a dire tra i 100 e i 200
euro. Tutti dati molto simili a quelli raccolti anche dal
Dipartimento nazionale di Statistica.
Un quadro terribile. E
fuori controllo. Alla Ens spiegano che in tutta la città le
ispezioni di lavoro nel 2013 sono state 5, contro le 4 mila del
settore del commercio.
Che fare dunque? Un
sindacato? Il fatto è che fino a poco tempo fa sindacato faceva rima
con sovversivi. Gli uffici governativi riconoscono che tra il 1986 e
il 2013 sono stati oltre 12 mila i sindacalisti vittime del
conflitto, assassinati, minacciati o oggetto di attentati. Per questo
non poteva che essere pazza l’idea di Maria Roa Borja e delle altre
27 empleadas. Figurarsi fare un sindacato dentro le case della
classe alta e medio–alta. Forse per questo loro stesse preferiscono
parlare più di «progetto» che di sindacato: «Ci incontravamo ogni
domenica al parco San Antonio. Ci raccontavamo solo di soprusi e
disgrazie. Non ne potevamo più».
Come ci sono riuscite?
Forse hanno colto il momento giusto, un’opinione pubblica più
attenta, il defluire del conflitto ideologico e hanno incontrato le
persone perfette, tra cui alcune attivissime congressiste. Qualche
mese prima, nel dicembre 2012, il Parlamento aveva approvato una
legge considerata tra le migliori su questo fronte in Sudamerica. Un
orario di lavoro ordinario di 8 ore, l’obbligo della previdenza
sociale e assicurativa, il salario minimo. Secondo il Ministero del
lavoro con le nuove norme le domestiche sotto l’ombrello della
protezione sociale sono passate da 5 mila a 106.480.
Insomma, quell’aprile
2013 era davvero il frangente per uscire allo scoperto. Perché una
legge non ha gambe se non c’è un doppio lavoro: uno dentro le case
per far germinare il sindacato e uno fuori approfittando dei
cambiamenti della società colombiana. Una rivoluzione gentile
infatti vive di alleanze tra donne e poi con ricercatori, giornali e
parlamentari, rivolgendosi ai giovani con un linguaggio franco e
senza livore: «Spesso i nostri datori di lavoro li chiamiamo ancora
patrones», racconta Maria Roa Borja, «anche se li
ringraziamo per i vestiti di seconda mano che ci regalano, ora
sappiamo che non sono barattabili con i nostri salari. E anche se ci
affezioniamo ai loro figli, noi abbiamo i nostri da amare».
È stato anche grazie
all’irruzione delle domestiche sulla scena pubblica se il Governo
ha sottoscritto la Convenzione internazionale sul lavoro nel 2014. La
Corte Costituzionale, in un simile clima, ha riconosciuto il valore
aggiunto apportato da queste lavoratrici alla ricchezza delle
famiglie dove lavorano, definendo «irrazionale e in violazione del
diritto all’eguaglianza» il mancato pagamento della tredicesima.
Detto, fatto. Le
parlamentari Ángela Robledo, Angélica Lozano e la senatrice Claudia
López, tutte e tre di Alianza Verde, hanno fatto approvare a
dicembre, in prima lettura, la legge sulla tredicesima, che da
quest’anno (o dal prossimo) verrà pagata metà a giugno e metà a
fine anno, una mensilità in proporzione al salario. «Le resistenze
ci sono», spiega a pagina99 Angélica Lozano, «dicono che così
aumenterà il costo del lavoro e in molte verranno licenziate, c’è
chi teme che tutti possano chiedere gli stessi benefici, come i
manovali nell’edilizia. Ma stiamo parlando di diritti, non di
favori. Il problema è che la nostra è una società permeata di un
classismo quasi feudale». Qui l’eredità coloniale è dura da
estirpare. «Nella testa di tante persone l’immagine della
domestica e quella della schiava si confondono», ripete Maria Roa
Borja.
Tuttavia, negli ultimi
anni qualcosa nel corpo sociale si è strappato. Nel 2011 il
settimanale spagnolo Hola pubblicava un reportage sulle famiglie più
ricche di Colombia. In tanti se lo ricordano ancora. Sedute sul
divano di una casa lussuosa di Cali, si vedono le donne di quattro
generazioni della famiglia Zarzur, a capo di un enorme patrimonio
immobiliare e di molte grandi fincas, le tenute agricole della
regione. Alle loro spalle, due domestiche nere in grembiule e
cappellino bianchi, in mano i vassoi del caffè, si guardano
immobili. Nel giro di qualche ora la foto suscitava una tale
indignazione nei social network che nessuno poteva nascondere.
Accusata di razzismo e di classismo, la matriarca dei Zarzur era
costretta a scusarsi.
Nessuno poteva immaginare
che quattro anni dopo una domestica-sindacalista avrebbe tenuto una
lezione ad Harvard, raccontando la storia sua e quella delle altre,
sotto gli occhi compiaciuti di Noam Chomsky. Tesa, sguardo perduto e
fogli tremanti, Maria Roa Borja raccoglieva un applauso scrosciante
dagli studenti–bene del Centro Rockefeller. Solo a quel punto non
ha più trattenuto le lacrime. «Sono solo entrata negli Stati Uniti
dalla porta principale, per una volta non come addetta alle pulizie»,
ha detto tornando a Medellin.
Ora corre da una riunione
all’altra, concorda interviste, coinvolge altre donne, incontra
parlamentari, avvocati e associazioni. «Mi piacerebbe se diventasse
davvero il mio lavoro», sussurra. Perché quello messo in moto da
questa donna ha ben pochi precedenti. Camminando verso la metro
Tricentenario, tra le case abitate da centinaia di desplazados, Maria
Roa Borja si sistema il foulard, apre le braccia e sfodera il suo
sorriso: «Abbiamo solo cominciato a parlare di diritti».
Pagina 99, 20 febbraio
2016
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