Il 28 maggio 2017 presso
il Palazzo comunale di Pistoia Donald Sassoon, uno dei maggiori
storici contemporanei, ha tenuto una lezione sul tema Quando il
sapere è diventato un prodotto di massa. “Pagina
99” ne ha pubblicato come anticipazione uno stralcio
dedicato alle innovazioni culturali indotte dal grammofono. Altri
capitoli della lezione sono stati il cinema e la radio. (S.L.L.)
Nel 1900 furono venduti
negli Stati Uniti tre milioni di dischi e cilindri; nel 1910 trenta
milioni; nel 1921 diventarono 140 milioni. Negli Stati Uniti furono
venduti 345 mila fonografi nel 1909, e 2,23 milioni nel 1919. Nel
1915 le vendite di dischi in Russia erano di venti milioni, ma la
Germania aveva già raggiunto una produzione di diciotto milioni nel
1907. Così, fin dall’inizio, la registrazione di musica acquisì
tutte le caratteristiche di una grande impresa capitalista. Rispetto
alle case editrici, le prime case discografiche erano grandi. Un
editore poteva realizzare un profitto vendendo solo un migliaio di
copie di un libro, e poteva sostenersi pubblicando un centinaio di
libri l’anno. Questo non era possibile con la nuova industria
discografica. Il costo di produzione era troppo alto e i mercati
nazionali erano troppo ristretti. Pensare globalmente era quasi
obbligatorio.
La Victor Talking Machine
Company (poi Rca) fu costituita nel 1901 negli Usa. La British
Gramophone Company (poi del Voce del Padrone e poi Emi) aveva lo
scopo di sfruttare il mercato europeo, mentre la Victor Company era
focalizzata sugli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e le Filippine.
In Italia c’era la Società Italiana Fonotipia, in Francia la
Pathé, in Germania l’impresa dominante era la Deutsche Grammophon.
In effetti, dal 1903 l’industria discografica era nelle mani di un
oligopolio che escludeva possibili concorrenti.
Nasce la musica
globalizzata
La velocità dei primi
dischi fu fissata a settanta giri al minuto – per passare ai 78
giri nel 1926. Una maggiore velocità avrebbe prodotto un suono
migliore, ma il tempo di riproduzione sarebbe stato troppo breve; una
velocità più lenta avrebbe prodotto suoni troppo poveri.
La standardizzazione di
giradischi e dischi diventò di importanza fondamentale; ma avrebbero
avuto tutti voglia di comperare la stessa musica? La diffusione
internazionale del romanzo avrebbe suggerito che diverse culture
possono godere delle stesse storie, e l’apprezzamento in tutto il
mondo della lirica, soprattutto quella italiana, avrebbe potuto
essere un altro segnale che, almeno all’interno di gruppi sociali
simili, ci sarebbe stata una convergenza di gusto.
L’industria musicale,
tuttavia, aveva inizialmente ipotizzato che i gusti musicali erano
fortemente legati a culture locali. La sua strategia iniziale fu
quella di cercare di soddisfare gusti locali.
Così nel 1902 la British
Gramophone inviò uno dei suoi dirigenti, che era anche un grande
tecnico, Fred Gaisberg, in India per aprire nuovi mercati, stabilire
le agenzie e acquisire un catalogo di registrazioni native (lo aveva
già fatto in tutta Europa). A Calcutta, dove rimase per sei
settimane, registrò diverse centinaia di titoli con cantanti locali.
Dopo l’India, Gaisberg andò in Siam, Cina e Giappone, dove
registrò seicento pezzi. Si sistemava in una stanza d’albergo con
le sue apparecchiature e registrava cantanti selezionati da un agente
locale. Gaisberg non sapeva quasi nulla della musica che registrava.
Di alcuni cantanti cinesi scrisse che le «loro voci hanno il suono
di un gattino che stride».
Nel 1910 la Gramophone
Company aveva fatto oltre 14 mila registrazioni in Asia e in Nord
Africa. Tuttavia i clienti erano di solito le classi abbienti e
cosmopolite e, dunque, la società vendette anche molta musica
occidentale in questi mercati, promuovendola come parte essenziale di
uno stile di vita moderno. Una pubblicità per la Gramophone Company
a Madras del 1913 recitava: «L’opera a casa: forse non avrete mai
la possibilità di ascoltare i grandi cantanti della nostra epoca...
ma con i nostri dischi potrete avere a casa vostra la più bella
musica del mondo».
Dalla lirica alle
canzoni, la musica si fa pop
All’inizio erano le
arie d’opera che hanno dominato il mercato della musica registrata.
Era stata scoperta una nuova fonte di prestigio e di reddito. I
dischi e cilindri potevano registrare solo pochi minuti di musica.
Dunque si potevano registrare solo canzoni e melodie brevi. Solo dopo
la seconda guerra mondiale si sarebbe potuto effettuare una
registrazione di un intero concerto su un disco solo. L’aspetto
tecnologico favorì anche il mercato della musica popolare, i cui
interpreti diventarono presto le figure centrali nel mondo della
musica.
All’inizio i cantanti
d’opera guardavano la nuova invenzione con sospetto. Essi pensavano
che una volta registrate le loro voci, i loro servizi non sarebbero
stati più necessari. Ma ben presto si resero conto del contrario,
che la registrazione avrebbe fatto aumentare sia i loro guadagni e,
nello stesso tempo, attirato nuovo pubblico che sarebbero venuti ad
ascoltarli dal vivo (tanto più che le prime registrazioni erano
molto carenti).
C’erano ragioni
tecniche per cui la registrazione della voce umana fu preferita alla
registrazione della musica strumentale: il timbro della voce umana
può essere riprodotto con maggiore facilità e realismo. Tra le
prime registrazioni vocali vi erano canzoni napoletane come quelle di
Eduardo Di Capua, compositore di I’ te vurria vasà, Maria
Marì e sopratutto di ’O Sole Mio, composta da Di Capua
mentre si trovava in viaggio a Odessa. La canzone, com’è noto,
diventò famosissima. Ed ecco allora che si viene a creare
un’immagine dell’epoca, con una signora che lava i panni cantando
allegramente ’O Sole Mio, come faranno molto più tardi sia
Pavarotti che Elvis Prestley. Di Capua non fu fortunato, gli piaceva
troppo il gioco d’azzardo e morì poverissimo, a Napoli, 100 anni
fa.
Caruso, la prima
star internazionale
La parte del leone,
tuttavia, la fecero non le canzoni bensì le arie di opere famose:
La donna è mobile, dal Rigoletto di Verdi, fu registrata
nel 1903; e poi Otello (Era la notte), Parigi O Cara
(Traviata), e In Quelle Trine morbide (dalla Manon
Lescaut di Puccini, registrata nel 1901).
Il principale
beneficiario della voga per arie registrate e canzoni italiane fu
Enrico Caruso, generalmente considerato il primo cantante a farsi
conoscere a livello internazionale attraverso i suoi dischi. Nel 1902
Caruso era già la stella principale della Scala e ben noto nel
circuito mondiale della lirica, ma fu la registrazione di dieci arie
esclusivamente per la Gramophone che lo trasformò in una vera e
propria star internazionale. Fred Gaisberg lo aveva attirato in una
stanza trasformata in uno studio al Grand Hotel di Milano, a pochi
minuti dalla Scala. Caruso aveva chiesto 100 sterline, più una
percentuale sulle vendite. La Gramophone Company riteneva questo un
compenso esorbitante e aveva mandato un telegramma a Gaisberg dicendo
di non accettare. Gaisberg fece finta di non aver mai ricevuto il
telegramma. Tra le arie registrate vi erano Questa o quella
dal Rigoletto di Verdi e Una furtiva lagrima
dall’Elisir d’amore di Donizetti – le altre sono rimaste
meno note, come l’aria Ah vieni qui... no non chiuder gli occhi
dall’opera Germania di Alberto Franchetti, la cui prima aveva avuto
luogo qualche settimana prima alla Scala.
Questo fu l’inizio
della fama mondiale di Caruso tra un nuovo pubblico che non era mai
entrato in un teatro. La Gramophone Company recuperò le famose 100
sterline e guadagnò milioni. Caruso incassò tra i 2 e i 5 milioni
di dollari negli anni seguenti con ben 260 dischi che furono prodotti
tra il 1902 e il 1920 (morì nel 1921 a soli 48 anni).
Il disco per tutti
e il secolo americano
Il repertorio operistico
fu ben presto superato (in termini di vendite) dalle canzoni
“popolari”. Queste erano canzoni essenzialmente urbane, di città,
spesso eseguite nei caffè-concert, in sale di musica e nei cabaret.
L’industria discografica li trasformò in un vero e proprio oggetto
di consumo di massa. Gli inglesi e i francesi gradualmente persero
terreno. Grazie alle dimensioni del suo mercato, il suo benessere, e
l’apporto culturale degli immigrati, gli Stati Uniti presto
superarono tutti. E non solo nella cultura popolare. Nel 1900 gli
Stati Uniti avevano la più grande rete ferroviaria al mondo e il
Paese era diventato il primo produttore di acciaio. Nel 1910 la sua
popolazione era la più numerosa nel mondo industriale: 92 milioni di
persone grazie a un alto tasso di natalità e una massiccia
immigrazione.
Il risultato di questa
espansione economica divenne evidente: mentre nel 1860 gli Stati
Uniti erano soprattutto esportatori di prodotti agricoli, nel 1900
erano in grado di esportare in Europa una vasta gamma di beni di
consumo di marca, tra i quali innovazioni quali le macchine da cucire
Singer, gli apparecchi fotografici Kodak, i rasoi Gillette, le penne
Waterman e le lampadine Edison.
Più che mai l’America
proiettava un’immagine di modernità, ma questo, ancora nel 1900,
non aveva ancora trovato le sue forme culturali. Prima del 1920 gli
americani contavano ancora poco nel settore culturale globale: senza
grandi cantanti o compositori di canzoni, senza opera lirica, pochi
compositori di musica seria, quasi nessun drammaturgo popolare e solo
qualche scrittore di fama internazionale.
Tutto questo cambiò nel
ventesimo secolo. Con il cinema di Hollywood, le canzoni pop e la
televisione gli americani conquistarono il villaggio globale della
cultura di massa.
Ascesa e declino
delle culture
Una volta vi era una
comune cultura aristocratica internazionale: tutti gli appartenenti a
questa alta cultura erano a conoscenza di una gamma molto limitata di
prodotti culturali. Poi, nel XIX secolo, ci fu la grande avanzata
della cultura borghese. Nel ventesimo secolo, il secolo americano, il
cinema, la musica registrata, la stampa popolare e la radio tascabile
a buon mercato e soprattutto la televisione crearono una cultura di
massa le cui radici sono appunto negli decenni 1880-1920.
Le novità si
susseguirono a ritmo incalzante e, senza il loro racconto fatto dagli
storici, forse le nuove generazioni perderebbero il senso di come era
fatta la cultura del passato.
Non vi è motivo di
lamentarsi per tale situazione, come non vi era motivo di lamentarsi
per il cosiddetto imperialismo culturale di un passato recentissimo.
La fine di alcune esperienze culturali può essere motivo di
rimpianto. Ma è già accaduto prima, e il mondo è andato avanti.
Così come continuerà ad andare avanti, nel bene e nel male.
Lascio i verdetti e i
giudizi ai moralisti ai quali spetta il compito di decidere se la
cultura di oggi è peggio di quella che l’ha preceduta. L’attività
degli storici è più complessa: si tratta di fare una mappa del
passato, dando prospettiva al presente. Decidere quale cultura sia
bella o brutta è una questione che riguarda tutti gli esseri umani,
una categoria che comprende gli storici e che non esclude nessuno.
Tutto quello che so è che un mondo senza cultura, sia essa alta o
popolare, senza Anna Karenina ma anche, se posso osare dirlo, senza
Cinquanta sfumature di grigio, sarebbe un mondo ancora più selvaggio
di quello che ci sta di fronte a noi ora.
Pagina 99, 26 maggio 2017
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